«Tutto è autobiografia, niente è una confessione», scrive Amos Oz in “Una storia di amore e di tenebra” raccontando la sua famiglia, forse avrebbe dovuto utilizzarlo come epigrafe anche Paolo Sorrentino ne “È stata la mano di Dio”, evitando le domande travagliesche sulla verità – sopravvalutatissima – che ora abitano anche i critici cinematografici. Sorrentino sceglie Maradona come epigrafe e il suo: Ho fatto il possibile, come a dire questa è l’acqua. E trattandosi di acqua napoletana degli anni Ottanta, c’è tantissimo. Si comincia con un San Gennaro pop-gagà-desichiano e si finisce con un monaciello che saluta un treno come se salutasse il Rex. Magia, affetti, evocazioni, per quello che non si è visto e si inventa, o per quello che si è vissuto e lo si reinventa. Tutto il cinema precedente di Sorrentino aveva un ritmo ovattato, grandi estetismi, ricerca della scena, e ora sappiamo che doveva fare da preludio a questa eruzione di semplicità. Un cinema efficace che perde l’indugio, e va via dritto partendo da sé, dalla propria biografia, fino a diventare apologo generazionale con l’esperienza collettiva maradoniana. Sorrentino ricostruisce un interno familiare borghese fatto di pranzi ferragostani e regolamenti di conti, amori, desideri, insorgenze ed esuberanze, entrate ed uscite sentimentali, con il suo alter-ego – Fabietto Schisa / Filippo Scotti purtroppo ha due espressioni: con walkman e senza – che vive l’eccezionalità del dolore, e prima una attesa ultra-leopardiana per Maradona, preferito anche alla «chiavata» con l’esagerata zia Patrizia (Luisa Ranieri) – musa, depositaria dell’eversione come delle esagerazioni sessuali – e quesito notturno tra fratelli nella scelta di felicità. Sorrentino ricostruisce i rapporti tra fratelli, li riscrive, tratteggia il carattere dei genitori che da quando comincia il film sono solo proiezione, invenzione, altra temporalità, fa tornare la sua vita, e con quella anche la corona di sentimenti che le stava intorno. Il pranzo ferragostano è affresco di scambi e caratteri, da Ettore Scola – tipo “La terrazza” – poche battute riassumono un mondo, basta una mozzarella e una pelliccia per la corruzione, un panama con pessimismo per vedere Benedetto Croce pronto ad uccidersi per un calciatore, Dino Buzzati e un binocolo dalla cima sbagliata per ridere, e poi i grandi pentoloni dei pomodori fumanti per sentire il Vesuvio e l’esplodere della tragedia. Il preludio fa la tragedia. I genitori del ragazzo muoiono, male, avvelenati dal monossido di carbonio, e tutta la sequenza a Roccaraso – dove c’è la tanto desiderata casa di montagna con camino – è venuta maluccio; come il secondo scherzo della madre – che uguale al secondo mandarino non è mai buono come il primo –; maluccio l’ultimo fischio (risiano) che la coppia usa come affettuosa colonna sonora, perché biascicato, interrotto, grottesco; maluccio le scene d’isteria in ospedale; maluccio l’avvicendamento tra i medici; maluccio l’evocazione comica post-tragedia nel parcheggio. Forse serviva a Sorrentino indugiare, chissà, però quella parte frena il ritmo già lento del film, lo disunisce, e senza avrebbe rafforzato la risposta che Fabietto poi dà a Capuano, e rallenta anche l’esplorazione del ragazzo, che invece è scritta bene, corredata con vari troisismi – il sopraggiungere della crescita per strappi e lunghissime riflessioni, l’evoluzione tortuosa da collage cubista che viene poi sciolta da una donna – sparsi per il film, interni ed esterni: dall’Enzo De Caro iniziale al treno della scena finale, passando per la sorella eternamente chiusa in bagno, il timore di Fabio per la baronessa che pare evocare la ragazzina di “Pensavo fosse amore… invece era un calesse”, e la «cazziata» tedesca che ricorda il medico di “Ricomincio da Tre” e avviene in un interno meraviglioso: tra quadretti di ceramica, testa di cervo e toghe di legno, con la contrizione dell’intera famiglia Schisa, per il bellissimo scherzo che racconta la cattiveria (eduardiana) dei napoletani. I personaggi funzionano, c’è un Servillo – padre, Saverio Schisa – che è sobrio, misurato, mai gigioneggiante, e una Saponangelo – madre, Maria Schisa – finalmente borghese ma con la disparità dello scherzo ad ogni costo, come della battuta tagliente, e del pianto da ambulanza. E poi ci sono i sorrentinismi, tra i tanti ammicchi e colpetti di gomito: Capri – «Voglio andare a Capri», gridava Antonio Pisapia – dove si va a vuoto, e la baronessa – uscita dal suo libro “Gli aspetti irrilevanti” e che risolveva le ossessioni sessualgiovanili di Tony P. in “Hanno tutti ragione”, e il mare – de “L’uomo in più” –, che diventa una soluzione per tutti, ogni volta che qualcuno dice qualcosa che sposta la crescita del protagonista, Fabietto Schisa, poi si butta a mare (come la piscina de “Il laureato” di Mike Nichols) un lacaprismo, come il viaggio finale verso Roma evoca quello di “Ferito a morte”, il cambio di stato: da liquido a solido. Dal mare arriva anche l’unico amico di Fabietto, un contrabbandiere che sogna la velocità dell’off-shore – altro desiderio che era ne “Gli aspetti irrilevanti” – e ne riproduce il sound dei motoscafi, Tuff Tuff, l’andare lontano schizzando sulla superficie dell’acqua, e quindi il linguaggio, come Adriano Panatta riproduceva la poesia dei colpi tennistici ne “La profezia dell’armadillo”. Il contrabbandiere, al pari di zia Patrizia, è l’eversione, che permette a Fabietto di uscire dalla banalità della realtà, perché non assimilabile; entrambi finiscono rinchiusi, con due misteri – la pila per zia Patrizia, la pena spropositata per il contrabbandiere – ma senza perdere la solidità del sogno. E poi ci sono le evocazioni, un Fellini solo in voce che fa provini a Napoli e che disegna la strada da seguire: «Guardando a orecchio si vede Shanghai in fondo ai viali di Vienna», come canta Paolo Conte. E, infine, l’apparizione risolutrice di Antonio Capuano – che ha in Ciro Capano un interprete perfetto – che scuote Fabietto e lo tira via dal torpore, esasperandolo con il suo carattere selvaggio (come selvaggia era la libertà che difendeva Maradona secondo Gianni Minà), l’esitazione è unica: davanti alla morte, il resto è doloroso come un parto – seppure verbale – gestito da un clown tiranno. Il cinema salva, perché permette di vedere quello che si è mancato o che è stato sottratto senza appello, e per arrivarci non c’è niente di meglio che il metodo del conflitto di Capuano. «Non ti disunire», è l’ordine, preceduto dalla domanda «‘a tieni ‘na cosa a dicere?», la risposta è bellissima quanto dolorosa. È il manifesto del cinema capuanesco, di cui Sorrentino si riappropria: semplicità, efficacia, dolore e ironia. “È stata la mano di dio” è un film riuscito a metà, che ha il potere di far rivivere una stagione irripetibile per Napoli e per la nostra vita, una declinazione del cinema di Sorrentino senza sfumature crepuscolari, che contiene diverse finezze (su tutte l’irruzione di Capuano e le scene con Renato Carpentieri / zio Alfredo), molto amore e una tenerezza per i difetti, le cadute, la rinuncia. Si candida a film di culto, specialmente per i napoletani, o per quelli che sognano di esserlo stando a Roma. È simmetricamente realistico perché punteggia una storia che conosciamo e ci riguarda – stessa cornice per tutti –, coinvolgendoci e costringendoci a fare i conti con le attese che svaniscono e con le presenze che si dissolvono: rimaniamo soli, senza più prudenze o infingimenti, soli e senza padri – via Massimo Troisi, via Pino Daniele, via Federico Fellini, via Diego Armando Maradona – in una transizione ingestibile, se si è sinceri, aspettando l’approdo finale. Il cinema è distrazione – dalla realtà e dalle sue esasperazioni – che si può sublimare, come ha fatto Sorrentino, in fuga – «ma con dignità» – dal destino, o in sgarbo e riconoscenza a Dio e alle sue mani.