Con i classici si può e si deve fare di tutto: riscriverli, stropicciarli, rovesciarli, con aggiunte o sottrazioni, tenendo presente due regole: se si aggiunge si deve reggere il vertice e se si sottrae si deve conservare l’equilibro. Il regista, Edoardo De Angelis, e il suo sceneggiatore, Massimo Gaudioso, nel film per la Rai Tv, hanno shakerato “Sabato, domenica e lunedì” consegnando al pubblico italiano un Eduardo De Filippo stravolto come dopo un lungo viaggio nel deserto, tanto che si ritrovano un dromedario che si frappone alla vista su golfo e Vesuvio. Un vezzo. Dove le aggiunte erano effimere e i tagli – soprattutto nella lingua – creavano un disequilibrio. A parte i cambi di sesso dei personaggi, le declinazioni femminili con ammicco al tempo corrente, e le colorazioni almodovariane, si rimane sconcertati dal fuori sincrono delle recitazioni, e dalla perdita di forza della scrittura eduardiana che viene sminuita in farsa, come la caduta dell’ingegnere Ianniello a tavola, che insieme ad altri cento dettagli – dalla serva, al colore del ragù, agli stivali –, negli scambi, raccontano una mancanza di conoscenza psicologica dei personaggi eduardiani, che culmina nel bacio sulla labbra tra Peppino Priore e l’ingegnere. Si può fare tutto, ma bisogna restare credibili. A Eduardo De Filippo manca un Kenneth Branagh che lo stravolga senza spegnerlo, che lo rigeneri senza svilirlo, che lo sovverta senza ridicolizzarlo, perché è successo questo l’altra sera, ed era successo anche l’anno scorso per “Natale in casa Cupiello” e succederà ancora per “Non ti pago” fra qualche giorno. Non è detto che necessariamente un napoletano debba essere il continuatore di Eduardo, come non è detto che per forza Napoli debba rimanere il centro delle sue opere, ma quello che non si deve perdere è l’idea eduardiana. Ogni giorno, dai Caraibi alla Cina, Eduardo viene messo in scena, riscritto, e vive, ed è probabile che in queste altre vite eduardiane che non vediamo ci sia la continuazione a prescindere delle scelte di De Angelis. Il punto è che lo shakeraggio espone Eduardo a un esercizio di stile, che respinge e non giova, perché non c’è passione – cosa che c’era nella riscrittura di Mario Martone seppure con un errore di mentalità camorristica, quando ha rifatto “Il sindaco del rione Sanità” – nonostante gli sforzi di Sergio Castellitto, più sordiano che eduardiano, tanto che il suo napoletano sembra un principio di raffreddamento. Il contorno poi è da musical, e a questo punto commissioniamo Eduardo a Pedro Almodovar o a Terry Gilliam, chiediamo a Broadway di restituircelo cantato e ballato – in fondo faceva i provini obbligando gli attori a prendere le note del pianoforte – oppure confidiamo nella Disney chiedendole di animarci il vecchio imperatore del teatro, ma così no. Il metodo De Angelis è l’abbellimento subordinato: colora ma non migliora, illumina ma non riscalda, tradisce ma non innova. Vorrebbe uccidere Eduardo, ma uccide noi. La tradizione non si ammazza traslandola nel tempo, ma capendola. Fino ad ora i tentativi di De Angelis ci consegnano un Eduardo fatto a pezzi nella lingua e nelle dinamiche, senza nessuna mobilitazione delle emozioni, senza nessuna rilettura delle intuizioni – enormi sulle dinamiche familiari – e dove si promettono soluzioni portentose troviamo un carico virtuale ed estetico che denuncia il fraintendimento del pragmatismo eduardiano, che non lasciava nulla al caso. E anche «questo Natale si è presentato come comanda Iddio».