Il corpo di Pier Paolo Pasolini – come solo quelli di Aldo Moro e Benito Mussolini – è ancora presente tra gli italiani, come pure il suo corpus. Tanto che possiamo distinguere tra cultori del suo corpo/carne – quelli che trafficano in figurine e ne fanno un santino – e i cultori del suo corpus/carta: i cercatori d’opera. Anche se Pasolini, il suo corpo e il racconto dei corpi stanno al centro del corpus, quindi si crea quello che potremmo chiamare “caos pasoliniano”: una confusione di carne e parole. Tutta la letteratura è distinguibile in scrittori-corpo – come Curzio Malaparte, dove l’immagine si sovrappone all’opera – e scrittori corpus – come Roberto Calasso, dove l’opera supera l’immagine di sé – solo per stare al secondo Novecento italiano; nel caso di Pasolini abbiamo uno scrittore corpo&corpus con una commercializzazione del suo corpo che lotta con la radicalizzazione della sua opera. Il corpo fatto a pezzi all’Idroscalo di Ostia negli anni si è andato ricomponendo grazie al corpus, in pratica Pasolini è diventato un Frankenstein di pagine&immagini che lo portano oltre le offese fisiche subite. La morte avviene perché la compressione esercitata sul torace dalla massa dell’auto gli ha fatto letteralmente scoppiare il cuore, e quindi tutto il suo folle amore, ora lo porta il vento. Il resto delle lesioni non avrebbero inficiato la sopravvivenza. Il tentativo di annientarne il corpo, martirizzandolo – nonostante il masochismo dello scrittore, raccontato come una messa in scena-ricerca d’annientamento dal pittore Giuseppe Zigaina in un singolarissimo libro “Pasolini e la morte” (Marsilio) – portò all’innalzamento del suo corpo, fino all’immortalità. Oggi Pasolini vive in mezzo a noi, vediamo la sua faccia ossuta passare sui social, non c’è settimana che le pagine di cultura non lo evochino, alternandolo al racconto del Duce; vediamo le sue gambe esibite sui campi di calcio e i suoi piedi fare il doppio passo alla Biavati, con conseguente racconto di partite e connessioni calcistiche – c’è anche un libretto “Il mio calcio” (Garzanti) e di recente una antologia delle conseguenze di quel suo calcio: “Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno” (Baldini+Castoldi) di Alessandro Gnocchi –; vediamo le mani che dipinsero i quadri, nella riscoperta del Pasolini pittore; gli occhi che guardarono nelle macchine da presa e ci diedero il suo cinema; la testa che concepì il corpus; e soprattutto lo vediamo nudo nelle foto che gli scattò Dino Pedriali nel rifugio di Chia, quelle che poi furono definite “testamento del corpo” e che dovevano stare nel romanzo “Petrolio”. Ed è curioso che fin dalla prima pagina di quel romanzo, che poi uscirà incompleto e postumo, ci sia un corpo che cade – quello di Carlo, protagonista – e che viene guardato da fuori, in un distacco da sé. A metterli in fila tutti i corpi di Pasolini – distaccati e non – si arriverebbe sulla Luna, basti pensare a quelli esibiti nel suo ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, ragazzi e ragazze sottomesse all’idea fascista, umiliati nell’imposizione di un piacere che appartiene alla forza e al dominio di pochi. O a quelli gioiosi del “Decameron” o di “Canterbury”, nudi che escono dal concetto borghese di corpo spoglio, perché provengono dalla migliore pittura italiana, appresa all’università dalla lezioni di Roberto Longhi. L’indugio pasoliniano sulla carne, nei romanzi e nei film, non è ricerca dello scandalo, ma appropriazione di una consapevolezza che poi dopo degenera. È proprio il dominio e l’uso disinvolto dei corpi – sia maschili che femminili –, rendendo l’eros parte integrante di ogni storia – esibita o no – e subendo stupide e violente censure, picchettaggi, aggressioni, gli permette di capire le potenzialità del corpo e della sessualità, creando una poetica del corpo al punto di arrivare a schierarsi contro l’aborto, in una capriola di coerenza. Lui che porta la libertà sessuale esplicitamente sullo schermo come prima nelle pagine si oppone alla riduzione di questa a consumo, pretende l’ostacolo o comunque il colpo di scena della nascita – «io vivo la mia vita prenatale, ma mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente» –, la convenzione della libertà di consumare il corpo come se fosse un prodotto. Mentre il corpo – per Pasolini – si consuma vivendo, una pena che si sconta cercando l’unicità della vita. E non è un caso che tra le tantissime facce sghembe dai denti marci, prese nelle borgate per il suo cinema, le quattro emblematiche con corpi dalla geometria unica siano: Anna Magnani, Orson Welles, Totò e Maria Callas, professionisti del corpo prestato alla Storia, quello che farà Pasolini affittandolo alla gioventù di ieri, oggi e domani, un corpo come carico da portare prima della vecchiaia: «prenditi questo peso, ragazzo che mi odi:/ portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò/leggero, andando avanti, scegliendo per sempre /la vita, la gioventù».
[foto di Mario Tursi]