In questi giorni un grumo di pensieri tiene insieme un verso di Franco Battiato – «La falce non fa più pensare al grano, il grano invece fa pensare ai soldi» – uno del Padre Nostro – «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» –, e Alessandro Manzoni che, spiegando la rivolta del pane, chiamava la carestia «la contrarietà delle stagioni». Mentre l’Europa bandisce vodka e caviale dalle tavole (che poi il caviale migliore sarebbe quello iraniano, anche se non so che posto occupi ora l’Iran nella classifica del male assoluto stilata dagli Usa e recepita come una circolare ministeriale dalle province dell’impero) non posso non pensare a come cambierà il pane: nel sapore e nella distribuzione già nel prossimo inverno, soprattutto leggendo quello che dice l’Ordine degli Assistenti Sociali analizzando conseguenze del Covid e della guerra in Ucraina: «Un italiano su tre rischia l’esclusione e la marginalità sociale». Quello che so è che Claude Lévi-Strauss – nel mio personalissimo mondo presidente più di Biden, Putin e Zelens’kyj e copertinabile anche ogni giorno – in “Tristi tropici” diceva che «il mondo è cominciato senza l’uomo, e può finire anche senza di lui». A questa osservazione Predrag Matvejević – anche lui da copertina ogni giorno – in “Pane nostro”, faceva seguire un’altra constatazione che allungava l’ombra straussiana: «L’umanità è nata senza pane e può scomparire perché non ne avrà più». Sarebbe bello ripeterlo ossessivamente a tutti: presidenti e non, soldati, giornalisti, analisti, parlamentari e cittadini belligeranti. I profughi, invece, lo sanno già.
[in foto: Safet Zec, ‘Pane spezzato’]