L’epicureo non si perde in un bicchiere d’acqua

1516025204718Un enzima fuori luogo. Uno che si era impadronito – da estraneo – di uno spazio non suo, e più cresceva il consenso – giustificato – più si incazzavano i filosofi. Intanto girava film, fotografava Napoli, andava in tivù a cazzeggiar&cantar con Renzo Arbore a dimostrazione che si poteva partire da Renato Caccioppoli per arrivare a Socrate passando per i bassi di Napoli con Cartesio. Una strada lunga, tortuosa, ma piena di risate. Luciano De Crescenzo era bello, un napoletano apollineo, che rideva di tutto: e qua si potrebbero scomodare la poetica di Aristotele e il riso, e in un balzo arrivare a “Il nome della rosa” di Umberto Eco e in uno scherzo del destino leggerlo come riduzione del problema decrescenziano. Divenne vortice, inaspettatamente, tra un calamaretto e una triglia, facendosi largo tra uomini d’amore – che avevano bisogno di qualcuno che li cantasse e prima che li facesse prendere coscienza – e uomini di libertà; tra stoici ed epicurei la differenza salta agli occhi, lo stoico non chiude il negozio per andare a mare avendo guadagnato quanto basta a metà mattina, come il Tonino Capone – l’epicureo inconsapevole – portato ad esempio da De Crescenzo. Il punto ora, è capire se Napoli, la sua Napoli esiste ancora, se c’è qualche epicureo o se si sta andando verso un irreversibile stoicismo di massa. Dopo Filodemo di Gadara, De Crescenzo, Troisi, c’è ancora qualcuno che è epicureo? – Escluso chi scrive – a guardarsi in giro non sembra. C’è la Napoli pagana, quella che a un Dio troppo lontano, antepone i santi, ma è un epicureismo di seconda classe. Prima, ai tempi dell’intuizione decrescenziana, Epicuro si incontrava ovunque, dal tabaccaio al contrabbandiere al vigile – alla tensione del traffico meglio la distensione del caffè, come da inizio di “Così parlò Bellavista” –, la Napoli che trafficava per raggiungere le piccole felicità era zuppa d’epicureismo, invece, oggi, tutti vogliono grandi obiettivi, dai sindaci all’ultimo scippatore, e si fanno stoici, tradendosi. Per fortuna che qua e là sopravvivono piccole tribù di epicurei che lottano per il presente, per l’attimo, per la conquista del quotidiano, una bella giornata, seppure di seconda mano. Nessuno gioca più col tempo, lo dilata, si mette appunto a filosofarci sopra, di fianco, intorno, vanno tutti di fretta e non per spedire un Espresso, ma per inseguire il nulla. Viene da chiedersi se sopravviva la Napoli decrescenziana, se ci sia una sua possibile geografia, si potrebbero mappare le zone d’epicureismo, ma sarebbe una azione da stoici, e quindi ci dovremo accontentare di una speranza – non manzoniana, per carità – ma paganissima e annodata a una grazia invocata e forse ricevuta. Bisognerebbe cercare nei pressi delle ricevitorie del Banco Lotto – punti di stupore che lasciarono sorpreso pure Charles Dickens – e passando chiedere: Il Mattino va ancora bene per incartare le bottiglie di pomodori rispetto alle riviste, o negli anni la carta è cambiata? E con essa anche la funzione del quotidiano? Ma si cadrebbe nello stoicismo, inseguendo una efficienza, si finirebbe contaminati e perduti, passati al nemico, e forse alla libertà. Invece, bisogna restare uomini d’amore ed epicurei, son queste le categorie da difendere, dal calcio ai mercati. Ora che anche la Grecia è caduta sotto l’arme dello stoicismo, non resta che Napoli. Anche se orfana del suo professor John /Luciano Keating/De Crescenzo, che era salito sui banchi della cultura italiana e l’aveva sconvolta, accerchiandola, portando Socrate allo spazzino, e facendo storcere il naso agli accademici che perdevano la supremazia, anche se poi sia Vattimo che Severino ammisero l’utilità dell’enzima – fuori posto – De Crescenzo, a Mixer Cultura, quando la Rai era l’unica agorà televisiva. In Germania e in Giappone impazzivano per la sua capacità di connettere, nelle sue semplificazioni non si perdeva niente, anzi si acquisiva il perduto, il marginale, l’inarrivabile del pensiero filosofico. Perché a De Crescenzo interessava la lateralità, poi anche il relativismo, onnivoro come era di ogni pensiero, incarnando la Napoli della curiosità: capace di teorizzare su tutto, perché pronta a intervenire in tutto, quasi che non prendendo parte vivesse a metà, e lui quelle “entrate” di vita le ha inchiodate, passandocele. Aveva già cucito alto e basso prima che ci arrivasse il New Yorker, lui che non aveva voluto imparare l’inglese all’IBM per non farsi imprigionare, per non finire ad aspettare il bicchiere di più sulla scrivania («Sono diventato al massimo direttore di primo livello e avevo come segno di riconoscimento una caraffa per bere l’acqua e due bicchieri. Il mio capo invece nel suo ufficio, aveva una caraffa e quattro bicchieri. E il capo del mio capo che era il direttore di tutto il distretto aveva una caraffa e sei bicchieri. Ogni volta che uno entra in un ufficio di IBM, non guarda mai di fronte, guarda subito a destra per vedere quanti bicchieri ci sono. Per sapere con chi ha a che fare. Io non volevo vivere tutta la vita mia solo per arrivare a sei bicchieri, ho preferito andare via»), lo scatto verso il potere, lo stoicismo con la scrivania e caraffa, e raccontava orgoglioso la fuga come il più grande dei capolavori, l’uscita dall’aziendona per non finire stoico. E con stupore bambino guardava ai suoi libri e al suo pensiero che si andava stratificando, che diveniva comunità da Atene a Tokyo passando per Berlino e arrivava persino a Federico Fellini che diveniva decrescenziano in un messaggio fiume lasciato in segreteria telefonica dopo la lettura notturna di un suo libro. Un altro epicureo, al quale si univano anche gli stoici, costretti a riconoscerne i meriti, malgrado tutto, perché sfiniti dall’amore. Un godimento no?

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