Stephen King è andato in tribunale a Washington per deporre contro l’acquisizione del suo editore Simon & Schuster da parte della Penguin-Random House, operazione che le darebbe un’influenza gigantesca sui libri pubblicati negli Stati Uniti, dando ai consumatori meno libri tra cui scegliere. «Mi chiamo Stephen King. Sono uno scrittore freelance», cominciava così la sua deposizione che tutti i giornali italiani hanno riportato, ma poi proseguiva dicendo: «Diventa sempre più difficile per gli scrittori trovare abbastanza soldi per vivere». Lui che può pubblicare con chiunque si è preoccupato di lasciare una possibilità agli altri scrittori (già pagati male e costretti a doppi,tripli lavori) opponendosi a un monopolio. La sua deposizione è una lezione contro l’egocentrismo della letteratura: di chi sa che oltre lo stile, le copie vendute e il successo, c’è la responsabilità di preservare un mondo per chi verrà dopo. È anche uno scontro all’interno del partito democratico, l’accordo rappresenta un test fondamentale per la politica antitrust dell’amministrazione Biden e per molti altri ambiti lavorativi: con il governo statunitense – che si oppone a questa fusione ma che incentiva alla concentrazione e alla concorrenza delle imprese – e la Penguin che pubblica gli Obama, Clinton, Grisham e Toni Morrison, mentre dall’altra ci sono metà Springsteen – solo le memorie –Hillary Clinton, Bob Woodward e Walter Isaacson. L’America è piena di queste nazioni a parte – uomini e donne – che ribellandosi la tengono viva. Penso a Larry Flynt su tutti. In più King sembrava uscire da un suo romanzo: potrebbe tranquillamente essere Gordie Lachance, lo scrittore voce narrante di “The Body” in “Different Seasons” – che poi è diventato a cinema “Stand by Me – Ricordo di un’estate” – e stare tenendo fede a una promessa di libertà fatta anni prima in un bosco di Castle Rock a Chris Chambers, Teddy Duchamp e Vern Tessi, ormai fantasmi, e per questo ancora più da rispettare.