Domani nell’area di rigore pensa a me

img_20150920_0001Per Javier Marías il calcio era drammaturgia, cinema naturale, «per questo il suo mondo è stato portato di rado sul grande schermo: parrebbe una ridondanza». Lo guardava come si guarda una sfilata di eroi, banditi, pistoleri, figuranti, marziani e bionde, innamorati e bambini, Marlowe e Marilyn, tirando fuori storie meravigliose dalle barbe agli sguardi, dal canto degli inni ai calci di Cantona: il miglior Marías – selvaggio e sentimentale – quello che scrive di pallone, non preoccupandosi di pettinare la pagina, ma lasciandosi andare, tanto che nei suoi elenchi finisce anche l’impensabile: Vierchowod. Guardava le squadre e i loro linguaggi come si guardano i film di Ford o Lubitsch, sapendo che gli autori usano interpreti diversi ma a loro affini: «mai John Wayne in un’opera di Billy Wilder», o Maradona alla Juventus. La Nazionale italiana che vinse il mondiale del 2006 gli ricordava la bimba “Bellissima” di Visconti; il suo amatissimo Real Madrid era puro cinema di Hitchcock, con preferenza per le bionde: Di Stéfano, Kopa, Netzer, Velázquez, Pardeza, Prosinecki e Butragueño; l’Atlético di Madrid: da cinema di Sergio Leone – «molte sparatorie ma alla fine tutto sprofonda rumorosamente» – e se si pensa a Diego Simeone: giù la testa; il Barcellona lo vedeva venato dalle angosce esistenziali di Antonioni e Bergman – presagendo in Cruyff e poi in Guardiola una vocazione intellettualistica che portava il calcio al livello degli scacchi –, poi abbandonate per l’euforia mortale di Rambo; il Brasile di Romario gli ricordava “3 Godfathers” (“In nome di Dio”) di John Ford. Marías era madridista assoluto, tanto che si potrebbe scrivere una sua biografia – anche letteraria – attraverso le stagioni dei blancos e connettere i suoi libri alle vittorie e alle sconfitte. Come scoprire il Numancia, squadra letteraria, sia per Marías che a Soria ci passava le vacanze, sia per Peter Handke che si limitava a seguire la Copa del Rey. Nel libro che raccoglie le sue parole di calcio “Selvaggi e Sentimentali” (Einaudi) c’è molto della sua infanzia che scorre naturalmente inseguendo gli eroi del Real – giocando però contro il fratello Fernando con i tappi di latta, quando non c’era il Subbuteo, come Barcellona: da piccoli si gioca con quello che c’è –, con intensi riferimenti familiari che raramente trovano posto nei suoi romanzi, con il leggere e scrivere che si mescolata al calcio, tanto che certe sue verticistiche pagine sembrano rifarsi più ad Alfredo Di Stéfano che agli amati Nabokov e Faulkner: «C’erano partite in cui Gento e io decidevamo di farci soltanto passaggi di tacco, per gioco e per scherzo». Ha scritto una valanga di articoli sul calcio e un solo racconto: “Nel tempo indeciso” che descrive l’incontro con un calciatore, Szentkuthy, nella discoteca Joy di Madrid. Un personaggio di fantasia, giocatore ideale, somma di tutti i caratteri che preferiva: ungherese «come Kubala e Puskás e Kocsis e Czibor», biondo con «masse ondulate e quasi simmetriche pettinate all’indietro come se fosse un direttore d’orchestra» un collezionista di gol e donne perché «ogni gol merita una donna diversa» e un grande scrittore.

 

[uscito su IL MATTINO]

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