Non chiedeteci la Nazionale che squadri ogni lato, o il nome del calciatore che ci farà battere il cuore sotto le mille telecamere del mondiale qatariota, nemmeno quello di chi se ne andrà sicuro sulla fascia. Non chiedeteci chi vogliamo che vinca, solo questo possiamo dirvi oggi: chi non tifiamo, in chi non ci identifichiamo, chi non vogliamo vedere alzare la coppa. Ecco l’Italia. A parte che molti non guarderanno il mondiale, figuriamoci tenere per una squadra. La verità è il non tifare, come la teologia negativa. Capovolgendo l’entusiasmo. La via negationis porta alla finale e ai suoi desideranti. Non deve vincere il Brasile: diventerebbe irraggiungibile con sei titoli; non deve vincere la Germania: che andrebbe a cinque scavalcandoci; non deve vincere la Francia: che si avvicinerebbe andando a tre; diverso sarebbe se vincesse l’Uruguay o l’Argentina: il loro arrivare a tre non sarebbe fiato sul collo come quello francese, e nemmeno il secondo titolo per Spagna e Inghilterra. Senza scomodare Plotino – allenatore filosofo greco – con più lezioni tattiche che partite, più teoria che pratica, più colpi di tacco che gol, possiamo dire che l’assenza stessa dell’Italia è il mondiale, un torneo dove misurando il nostro vuoto ci preoccupiamo che non venga occupato da chi ha la nostra misura o una diretta vecchia ostilità, pallonara s’intende. La sottotraccia poi è che non deve vincere il campione degli altri: Messi per i brasiliani, Neymar per gli argentini, e via così, in un macramè di avversione e gufate, nessun mistero ma tifo, solo tifo. Sapendo che «la condizione naturale del tifoso è un’amara delusione» come scrive Nick Hornby che, tenendo per l’Arsenal, sa come può essere avaro il calcio per alcune squadre, e tocca lavorare per ridurre la delusione, diventando «ladri di tifo». L’ultima categoria è quella di chi tifa i calciatori delle proprie squadre e ha più nazioni del consiglio di sicurezza dell’Onu. Si traccia un calendario alternativo, dove poi in caso di scontro tra nazionali con un diretto rappresentante del proprio club, si sceglie per ragioni assolutiste quello più forte, con una sottocategoria che pur tifando coltiva – con sottile desiderio perverso – la speranza dell’uscita immediata del proprio calciatore, per poterlo avere di nuovo a casa senza pericolo di infortuni o strane tentazioni che poi si ripercuotono sul campionato, lesionando il tifo maior. Nell’incontro Messico-Polonia, quindi Lozano contro Zielinski, i napoletani sperano nell’uscita immediata di Zielinski ma anche nel suo trionfo, come nell’uscita immediata di Lozano come nel suo trionfo, in una bipolarità che anima i veri tifosi che non avrebbero mai voluto l’interruzione dei campionati. Perché va bene la sociologia, va bene la narrazione, va bene l’apertura, ma quello che napoletani, milanisti, interisti, juventini, e compagniabella desiderano: è che si torni a giocare nelle proprie città. Canonicamente, con buona pace della Fifa e degli esperimenti qatarioti.
[Photograph: Pete Pattisson]