Lucio Dalla non ha mai smesso di rincorrere un pallone

dalla-morandi-albumEsce fiero dall’ombra di un portico con una maglietta bianca da calcio antico, pantaloncini neri troppo corti come s’usava prima e i calzettoni abbassati alla Omar Sivori, ha la mano di Gianni Morandi sulla spalla e le loro ombre sul marmo di lato sembrano la proiezione di una statua di Alberto Giacometti, la foto è di Luigi Ghirri: ala solitaria e scarpinante, ed è la copertina del disco Dalla/Morandi del 1988.

In quella foto e su quella copertina c’è tutto il Lucio Dalla calciatore, un calciatore da campo di terra, pelosissimo e fiero del fango alzato, un distorsore di gioco, disinibito e sprecone, affannato e venuto da un altro mondo, quello dove i piccoletti in anticipo sul Barcellona se la comandano.

Avanza ancora, Dalla, nome che torna anche utile per urlargli di passare il pallone solo appellandolo (come fa Christian De Sica in “Vacanze di Natale” – 1983 al tavolo da gioco), e non smetterà mai di farlo come i grandi del campo, non importa quante partite e gol e pallon d’oro, quello che conta è come sei stato in campo e lui c’è stato sempre bene, con l’allegria che hanno i bambini infiniti, quelli che non smettono mai di divertirsi e dopo aver dribblato e anche crossato ridono soddisfatti o defraudati del pallone restato a terra dopo l’ultimo sforzo, capo chino e mani sulle ginocchia, aspettando che qualcuno si ricordi di loro e li vada a prendere come auto dimenticate in un parcheggio dove il mondo è avere solo un pallone /Dargli un calcio /Farlo volar via /Così in alto che si vede la scia /Nell’incanto della notte.

C’erano tanti palloni nelle sue canzoni, e biliardi e macchine e ragazzini, perché Dalla era cresciuto quando negli stadi c’era il popolo: “entità largamente interclassista, che si estendeva dal notabilato urbano alle classi medio-basse, un insieme raccolto dalla passione tifosa o dall’amore per il bel calcio”, come scriveva Edmondo Berselli che si divideva tra Modena e Bologna ed ha descritto l’humus dallesco che non è più andato via dalle sue canzoni, prima la Coppa dei Campioni del Milan di Nereo Rocco vinta contro il Benfica d’Eusebio nel 1963 a Wembley e, poi, l’anno dopo, lo scudetto del Bologna allenato da Fulvio Bernardini con Haller, Bulgarelli e Pascutti, lo stesso amato da Pier Paolo Pasolini.

Oscillava Dalla, in cerca dell’epica, uscendo dalla normalità del tifo, lasciandosi sedurre in una lussuria calcistica che lo vedeva infedele in campo come nella vita, disinibito e sfacciato, in un coinvolgimento totale che poi diventava verso, che rubava alle imprese, alle azioni, che erano sempre preludio d’altro, una emozione sportiva che, masticata e digerita, trovava posto in una canzone, perché l’amore per Dalla era un contatto epidermico bruciante che apriva altri mondi, in una complessità di ragionamenti e visioni.

Tutta la vita, a provare a dirti che partivo / O che partivo o che morivo / Domani compro un bel violino / E una camicia di velluto e ti saluto e ti saluto / Come un pallone che si è perduto / Al limite fisico del racconto / O dentro un cielo tropicale / O come i palloni di una volta /Che rotolavano sulle scale fino alla porta.

Ovviamente, non erano tutti palloni da calcio quelli che rotolavano nelle canzoni, c’erano anche quelli da basket, dove, però, Dalla doveva sfidare l’altezza del canestro e misurarne la distanza, giocava playmaker e diceva d’essere grande, anzi il più grande, come testimonia un’altra foto, niente copertina stavolta, dove sfoggia una posa sfrontata prima di una partita che non ci sarà, stando di fianco ad Augusto Binelli e arrivandogli in vita, compreso di basco, questa volta ha i calzini tirati su ed è tirato a lucido, le scarpe bianche e pulitissime, è un Dallaordinato, che mente auspicando quello che non ci può essere, anche perché un altro giocatore, sempre della sua Virtus Bologna, Dado Lombardi, dice che Lucio era scarso (una falsità enorme, tutta invidia la sua, come quella di Pupi Avati per come suonava il clarinetto) e racconta di partite lontane: «Eravamo ai tempi della Moto Morini, che per i puristi della Virtus era una sottosquadra di Bologna: c’era anche Lucio, faceva ovviamente il playmaker ed era scarsissimo. Dopo le partite andavamo a cena in un ristorante che si chiamava “Da Cesari”: lui non aveva mai un soldo in tasca, e allora per mangiare doveva cantare. Faceva un po’ dei suoi gorgheggi, e allora Cesari gli portava un piatto di tagliatelle».

Un racconto che punta a minimizzare l’enorme perdita per il basket del Dalla fantasioso capace di smarrirsi in campo e di cadere alla difesa, dimenticare schemi, ma bravissimo a fingere entusiasmo, e giocare a intenerire, e anche se non vince, la sua rimane una corsa importante verso altro, Lombardi non poteva capire che Lucio era oltre, con forza e ritmo, scivolando sulle sue bugie, oltre la confutabilità con la sua energia spaventevole, le sue finte e le sue uscite. Ma il mondo è una palla / è una palla di vetro / se ci guardi dentro / è come un grande presepio / e lì ci siam noi/ statue di vetro / ombre nel sole / sguardi, gesti, respiri, parole.

Cercava il sentimento d’amicizia, Lucio Dalla, in ogni sport da un pallone che rotola in una rete a uno che rimbalza e prova a centrare un canestro, fino alle auto che corrono, per questo andava in una libreria che adesso non c’è più a Bologna a scrivere canzoni con un poeta, Roberto Roversi – “diavolo benigno” – in un esercizio di apprendimento: andava a bottega per poi diventare il migliore, questa volta più delle altre, si faceva allenare al verso, e giocando non lasciava nessun campo: immaginandosi nelle curve della mille miglia per raccontare l’Emilia motorizzata, un andare e tornare tra verità e bugie che è omerico: come sapevano Tazio Nuvolari e Ayrton Senna.

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