Non aveva né piste né tradizione il Sud dal quale veniva Pietro Mennea, era selvaggio come il west, aveva le ortiche più del cemento ed era amaro come un campo di cotone. Eppure, nonostante, o forse per via di, l’Italia ebbe Pietro Mennea. Il professor Carlo Vittori gli diceva: «Se non ti sei allenato, Dio non può fare niente» e quindi Mennea era anche il Sud del Sud dei santi ma senza Dio. Ma non si arrangiò, si sforzò, si programmò, e vinse. Divenne termine di paragone, padre imprescindibile, per l’Italia sportiva. Un vanto, per dimenticare più in fretta il Sud sfruttato e tradito. Perché sforzarsi quando ci sono i Mennea? E quanti ne abbiamo visti anche in altri ambiti? A quanti di loro è servito Mennea? A tutti. Perché si è fatto Santo per tutti. Un santo che fa miracoli, prima su di sé e poi per gli altri. Non c’erano gli uomini per gareggiare? E lui sfidò le auto. Non c’erano piste? Non bastano più le strade di Barletta? Emigrò a Formia. Erano gli anni Settanta: Mennea cominciò in un Sud carente e smise in un Sud carente. Quasi un ventennio di piste bruciate in corsa, e di piste invocate nelle interviste. Denunciò, lamentò, polemizzò fino a divenire il rompiscatole dello sport italiano: tanto amato dalla gente e tanto inviso al Palazzo. Eppure, il suo Sud, come l’America di Tommie Smith, fa i conti con le stesse carenze, con le stesse negazioni, con gli stessi scandali e anche con un lamentismo che scava nel passato, trova il brigante ucciso, ma non è capace di darsi quella precisione d’orizzonte di Mennea. È quella la sua grande lezione: l’essere dei nonostante che vincono contro tutto. Per questo si sentiva nero come disse a Muhammad Ali, che poi davanti al 19”72 si aspettava proprio un nero. Mennea gli indicò il petto, l’anima, l’interno. «Ma io sono nero dentro». Era un appartamento con la facciata del colore sbagliato. Uno dei problemi del Sud: che ha sempre un racconto e una faccia che tradiscono le sue stanze migliori. Mennea no, non tradì nessuno, anzi era la Nasa del Sud, la parte più avanzata, come lo erano Leonardo Sciascia o Domenico Rea, tutti dei nonostante, dei resistenti, degli ostaggi del mondo che rappresentavano. Luce nel buio. Neri contro bianchi. La finestra sul retro, l’uscita di sicurezza. Il titolo di uno dei tanti libri che ha scritto: “La corsa non finisce mai” (come gli esami di Eduardo), oggi, a dieci anni dalla sua morte, sembra essere il manifesto del Sud sportivo, sociale, culturale e politico che non riesce a trovare un traguardo, e nemmeno degli atleti validi. Oggi il Sud per un paradosso ha meno grandi impianti rispetto agli anni di Mennea, ma ha il campione olimpico dei cento metri che, però, non è una figura menneiana. Marcel Jacobs è l’evoluzione dell’atletica italiana, ma non va nella direzione di Pietro Mennea, ma nemmeno il Sud e l’Italia ci vanno. «C’è una società con una morale diversa che rifiuta tutto quello che io ho rappresentato». Per trovare un Sud che partorirà un Mennea bisogna andare in Africa del Nord o in Siria, e per trovare un Sud come lo immaginava e programmava Mennea servirebbe un Nord. Perché quando correva, parlava, scriveva, metteva sottosopra non solo il tempo ma anche la geografia. La sua natura doveva essere da perdente, il suo corpo leggero doveva essere battuto da quelli possenti dei suoi avversari, eppure Mennea usciva dalle statistiche ed entrava nei record, usciva dalla sconfitta ed entrava nella vittoria, una rivoluzione continua. Una rivoluzione così sobria che poi al traguardo alzava solo un dito, come farà anche Marco Pantani. In quel dito c’era l’Italia unita, che la Lega non capirà mai. Perché quelli come Mennea sono l’altro Sud ancora oggi. Quello generoso e convinto che dà senza preoccuparsi di avere, che accoglie – fosse anche solo le salme – a Cutro, e che è incapace di stare fermo, proprio come Pietro. Un monaco, un asceta, un guerriero, un fachiro, ma anche un falegname, un muratore, uno scaricatore, Mennea era il Sud che non imbroglia e resiste, che lavora anche se sa che sarà scavalcato dal peggio e rappresentato dai mediocri. Poi, c’è anche il Sud immobile, quello del divano e del posto fisso, quello che dice al professor Laurana di “A ciascuno il suo” di farsi i fatti suoi, ma poi c’è anche il Sud di Gioacchino Criaco che alza la testa. «Perché la fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni», diceva Pietro, e questa sua frase dovrebbe stare in ogni piazza del Sud, dove tutto comincia. La corsa e la sconfitta. La noia e la vittoria. Dipende dalla disponibilità a soffrire per sognare. A faticare quando non si vede il domani, sempre più lontano, sempre più distante, come l’Italia del Nord con l’autonomia differenziata. Però a Barletta c’è uno che ha vinto, e non ci lascia soli.
[uscito su IL MATTINO]