Early Dog sta appoggiato al muro dello spogliatoio prima della partita, i giornali hanno scritto che «schiaffeggia le palle come se fossero donne», e lui ha detto che «gli sembrava una bella immagine, ma che non era così». Piuttosto: «penso a un sopruso prima di battere e allora trovo forza, e mi vengono i fuoricampo». Ma lo aveva detto sempre tenendo quell’aria dimessa che faceva di lui un campione amato del baseball, di quelli che poi venivano identificati col bene negli anni che hanno giocato, e i loro campionati diventano parti estese del cuore di chi li evoca, e si portano i nomi eternamente sulla punta della lingua. Early Dog era un faro sempre acceso in campo. Uno che potevi giurarci ti avrebbe riscattato, un battitore che sanava le imperfezioni delle squadre di cui vestiva la maglia. E quando gli chiesero perché non avesse lo sguardo avvelenato che hanno i campioni, rispose che «la poesia non c’entra un cazzo con le mazze da baseball, piuttosto ogni partita è un viaggio di un bimbo», e che lui aveva avuto una infanzia tranquilla, per questo giocava così bene. Continua a leggere →