Si chiamava Albert e oltre a poter esibire delle discrete esplosioni linguistiche aveva dalla sua la difficile arte di saper rappresentare la realtà. Sì, era un attore, ma questo viene dopo, dopo lo sguardo di lei e tutto quello che viene chiamato: contesto. Alle donne che davvero gli piacevano, che insomma lo stupivano, diceva sempre la stessa frase: «il silenzio implica il desiderio». E quelle che capivano, finivano nel suo letto. Lui, solo a un paio aveva mostrato le medaglie vinte alle olimpiadi, e raccontato di come una piscina era differente da un continente all’altro, anche se sembrava un discorso surreale. Non lo era mai, quando a parlare era Albert, il nuotatore, e delle sue discrete esplosioni linguistiche ora sapete anche voi, e anche che hanno delle implicazioni geografiche/sportive. Ai giornalisti, invece, parlava dell’esportazione dell’uomo interiore quando si nuota. Di come la piscina sia mondo, molto più di un set. Anche se c’è chi le confonde o peggio chi non le distingue. Perché l’espressione “guardare dentro” non appartiene solo agli analisti e agli scrittori, o è un invito di un prete, ma molto di più, quando uno è immerso nella sua corsia d’acqua, nel suo pezzo di percorso, e deve fare in fretta come una donna timbrare un cartellino, solo che non le danno medaglie né copertine, se lo fa prima degli altri. È complicato mettere in comunicazione l’acqua con la routine, anche se potrebbe essere una pratica elementare della cultura umana. Perché la sostanza di cui tutte le cose sono composte, l’importanza per uomini e donne, che in buona parte lasciamo che confluisca nella parola Dio, potrebbe essere affrontata con meno superficialità. Il nuotatore lo faceva, per questo era un uomo completo. O almeno appariva così a chi aveva margini di dubbio sulla parola Dio. Continua a leggere →