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Sepúlveda: ribelle, sognatore e fuggitivo

Aveva un nome da torero e una vita da romanzo di Dumas: piena d’avventure, epica e nessuna paura. Era morto molte volte come gli eroi veri, una per ogni fuga. Luis Sepúlveda, apparteneva a quella generazione latinoamericana costretta a reinventarsi la biografia e i ricordi negli aeroporti e sulle banchine delle stazioni europee, senza documenti, ma con una lingua che diveniva patria leggera e trasportabile: alle spalle il vuoto creato dalle dittature e nelle orecchie la memoria di voci e facce di chi era caduto, come il presidente del Cile: Salvador Allende, di cui fu guardia del corpo. Continua a leggere

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Dumas

Dumas pensa che i boschi si somigliano tutti, posti dove non succede nulla, non devi evitare le auto, salire le scale, stare attento a dove andare, respirando fumo e nafta. È cresciuto in città. Ha altre abitudini, e quando si perde, trova sempre un uomo di buona volontà che gli legge lo smarrimento e lo riporta a casa. Queste le cose di cui è sicuro, il resto gli causa un leggero spavento. Allora corre, e si ferma solo sotto una sfera di sole che è riuscita a trapassare la fitta chioma degli alberi. L’odore di pioggia fresca e l’umidità che pizzica addosso, donano euforia. Uno come Dumas, non dovrebbe avere paura, e invece, calando la luce comincia ad averne, si muove con lentezza, ha sentito tutto il peso della solitudine, lo smarrimento del bosco, la sua cappa di dubbi, vorrebbe tornare indietro ma non sa come farlo, da un lato la terra scende improvvisa, si arresta davanti al corso di un fiume. Davanti ha chilometri di alberi e fra poco buio. Si è anche alzato un leggero vento, forse pioverà. È un tormento bestiale, non sapere da che parte andare. Correre fino a sfinirsi e non ottenere nulla, sforzarsi di ricordare un particolare che ti possa aiutare, un indizio, un albero segnato, salire e raggiungere una strada, provare a tagliare, passando il fiume, allontanandosi e magari sbucare in un altro posto, forse abitato, oppure continuare a vagare nella speranza di incontrare qualcuno. Dumas sente la disperazione dei suoi errori, si pente di aver lasciato casa, di aver seguito il suo istinto, la colpa si serve del tempo, lavora lenta, esplode dentro, lasciandoti interdetto e solo. La paura è una estremità della colpa, rapida ti assale, non risparmia niente, tira fuori la parte peggiore di te, ti fa dimenticare chi sei e da dove vieni, è uno stato del presente che ti scuote e spesso cambia, lasciando segni nascosti. Il calore, come punto di partenza di tutta questa storia, serve solo ad accrescere il rimpianto, ma è quello che manca a Dumas, straniero, smarrito, terrorizzato, va su e giù tra larghe buche e foglie che suonano al suo passaggio. Poi, verranno gli eventi muti, chiassosi, chissà, della notte nel bosco, non riesce a immaginarsi lontano da qui, non riesce a vedere la fine, quasi ruggisce per la sete e piange perché il tempo sembra immobile e il paesaggio fermo, non abitato da altri. Non sente versi, non ha incontrato nessuno, né visto volare uccelli. Anche la notte non arriva, i colori sono fermi, come in un quadro. E Dumas è un cane senza più padrone, zampe umide, angoscia, intrappolato per sempre in un mondo d’illusione.

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