Ernest Henry Shackleton, coperto da una pellicola grigia e densa, ha fregato le onde dell’oceano Atlantico, l’Antartide e anche il tempo atmosferico. Gli oggetti chiave della sua vita, il destino, li aveva devoluti e risolti in una diarchia: ghiaccio e mare, tra questi la sua nave. L’aria gelida trafiggeva l’assenza dell’Endurance. Freddo, fame, sonnolenza, torpore, bisogna liberarsi anche di questi pesi, per poter sperare. E mantenere una promessa. Tra i suoni dell’oceano. E un’isola lontana come il cielo. Alle spalle un paesaggio di ghiaccio, davanti il nulla. In mezzo, una responsabilità, verso gli uomini coinvolti. Dormire a singhiozzo, e ogni mattina mantenere una rotta, sentita a cuore, orecchio, istinto. Niente altro da segnalare, se non una grande forza di volontà. Farsi Dio, ecco cosa fece Shackleton. Non era più un capitano, un esploratore, un uomo curioso, un Ulisse che andava a sud, no, era Dio, ostinato e scivolato giù dalle nuvole. Che salvava gli uomini che aveva coinvolto, che non abbandonava il suo equipaggio, che diceva: io sono la causa del vostro dolore e io vi salverò. E lo fece. La storia è questa, e comincia da Londra, da dove il primo agosto 1914 salpa l’Endurance, a bordo 27 uomini. Direzione Georgia del Sud, isola a est della terra del fuoco, un punto sopra la penisola antartica. Si fermarono a Grytviken, il posto abitato dell’isola, poi ripartirono per il mare di Weddell, dove arrivarono un mese dopo, e rimasero incastrati nel ghiaccio. Continua a leggere →