
Il Po è un blues per uomini soli, orfani di un mondo scomparso. A cantare è la voce di un pazzo, che attraversa paesi e città irrompendo nel silenzio di sperduti borghi, tenendo compagnia, volando nei campi, riempiendo giorni e notti: fra il frinire delle cicale, gracidar di rane e sgasi di trattori che arrancano rivoltando zolle di terra dura. Il suo è un lamento penetrante, nenia, che ricorda errori fatti, donne perdute, pesce cercato invano. È la vita che passa e gira, si perde e ritorna, sinuosa e incurante, specchio, sputo, ladro, giudice, testimone, accusa. Processo a cielo aperto, udienza continua, spada, mattini di nebbia e infiniti pomeriggi di sole. Piano piano entri nel suo lamento e in quello della sua gente. Devi stargli intorno come un chierichetto col parroco, assecondarlo, capire il rito, avere fede, e poi se hai cuore e fiato di stargli anche dietro senza perderti: impari ad ascoltarlo, e ne rimani rapito. Unisce più di uno stato, si porta dietro il fascino di una religione, ma a capirlo sembrano rimasti in pochi. I suoi 650 chilometri di bellezza negli ultimi trenta anni sono diventati una ferita, e tutti quelli che si avvicinano domandano solo del suo stato di salute, incuranti di quello che ha generato, ignorando le storie, le esistenze che trascina, le emozioni e le attese che ancora fortemente suscita. Continua a leggere →