Quando cala la notte a Craryville, upstate New York, un gruppo di ragazzi può finalmente uscire e provare ad avere un pugno d’ore di normalità. Prima, durante la giornata, il loro corpo (la loro cute) è ostaggio dell’ombra o della luce artificiale. Tempo capovolto. Nessuno di loro può vivere in pieno giorno: niente estate, vacanze, mare. È una vita scavata, da talpa, con il mondo visto da una finestra schermata. Clandestinità di luce, governata dall’incertezza circoscritta di una malattia: si chiama xeroderma pigmentosum (Xp): ipersensibilità alla luce solare, fotofobia, comparsa precoce di lesioni nelle aree fotoesposte, oltre che alterazione neurologica. Oggi la malattia è incurabile. Devi mettere al riparo il tuo corpo dai raggi del sole. Moondance. Illuderti con il buio, in compagnia della luna, aspettando l’alba per rientrare nel circolo vizioso dell’attesa, nella speranza che qualcosa cambi, modificando un ciclo invertito che ti esclude dalla normalità e dalla vita degli altri. La notte, per qualcuno: tempo perso, esplorazione, regione dell’improbabile che non bisogna dire per Oz, madre per Vonnegut, tenera per Fitzgerald, superba per la Merini, dell’oracolo secondo Auster, fatale per Jelloun. La notte mangia i giorni, con loro fa nuovi patti, poi volta le spalle e procede spedita. Si dice abitare la notte e le sue ore, quasi fosse un luogo: striscia scura e buona a coprire tutto, ma non è come stare di fronte alle “tele nere” di Rothko. Continua a leggere