Il rapporto tra chi vede e la cosa vista

090309_r18266_p233No, non era affatto pessimo nelle interviste David Foster Wallace, come invece confessava in una di queste, anzi, era spiritoso e attentissimo, giocava al ribasso ma sapeva che dava il massimo. Magari a rileggersi si trovava pessimo, succede a tutti, il tempo gli sta dando torto, ormai è ovunque (e per fortuna, no, non siamo tra quelli che sono dispiaciuti dell’invasione wallaciana, anzi). Sono appena usciti due libri, uno solo di interviste e conversazioni “Un antidoto contro la solitudine” (Minimumfax, pag,292, euro 13) e uno che raccoglie tutta la sua nonfiction e si chiude con una intervista fattagli dal regista Gus Van Sant “Di Carne e di nulla” (Einaudi, pag. 240, euro 18). È anche vero che bisogna distinguere i lettori di Wallace in quelli pre e post suicidio, che vanno divisi in altre due categorie chi ha già letto “Infinite Jest” e chi no, e poi dall’altra parte ci sono tutti quelli che non lo leggeranno mai, né quel capolavoro (come non leggere l’Ulisse di Joyce) né il resto, e penseranno che DFW è solo un fenomeno di costume e un brillante sociologo con la bandana. Tutta questa premessa serve per dire che questi due libri possono essere usati sia come preludio alla lettura dell’opera di DFW sia come sublimazione della lettura già avvenuta, quindi non è solo materiale per i devoti, che non dovrebbero essere tali. E chi legge queste uscite come raccolte per sublimare il feticismo, sbaglia, perché dalle interviste escono tali e tanti spunti che non si può non riprendere in mano i libri di DFW che è uno dei pochi scrittori contemporanei che si presta alla rilettura, quella vera. Anche perché i due libri potevano essere uno solo, con le interviste a fare da note ai reportage o persino viceversa. In “Di carne e di nulla” ci sono le “Notazioni su ventiquattro parole” che ricordano il “Dizionario del diavolo” di Ambrose Bierce, e da sole ripagano il prezzo del libro oltre a coprire i testi meno riusciti. Ad elencarle viene fuori non solo il mondo di DFW ma il suo singolarissimo modo di pensare, l’andamento delle maree che gli girava in testa, una precisa mappa di quello che lo incuriosiva, dei numerosi interessi avuti, al puro magnifico gioco di rispiegare quello che utilizziamo in un modo solo e invece ne ha diversi, e non c’è bisogno di fantasia ma solo di un ragionamento, un libretto d’istruzioni marziano: utilizzare, se, avvenenza, mucoso, in direzione di, che, effetto, dialogo, privilegio, innumerevole/miriade, disfasia, unico, invocare, critica, focalizzazione, inverosimilmente, individuo/individuale, fervente, prestito, inefficace, tutto, blando, noma, villoso.  Non vi è apparso il suo viso? E se non lo vedete ancora, andate avanti e leggete “Futuri narrativi e i Vistosamente Giovani” dove si accorge che la nostra cultura si sta basando sempre più sul vedere fino a corrompere, logorare, «il rapporto tra chi vede e la cosa vista», e declina questa osservazione fino a sezionarla. Era un ragazzo, un uomo meticoloso DFW, mai sciatto, mai banale, bordeggiava l’abisso delle cose, la profondità che queste contengono. Era un misuratore di vuoti, quelli che si possono aprire solo con la mente persino partendo dall’aspirapolvere che abbiamo appena usato. E per un paradosso, questa sua razionale quotidiana abitudine all’esplorazione del tutto che ci sta intorno appare nitidamente nelle interviste ancora più dei testi, perché nelle interviste deve farla breve, non può prenderla larga come fa di solito nelle pagine, non c’è spazio per le note, e allora DFW si fa ancora più preciso, ma di quella nozionistica piaciona, no, se c’è è per poco e per vincere la timidezza verso l’interlocutore, lui sa che deve rispondere, e lo fa con la compostezza che hanno solo i bambini quando capiscono l’importanza di fare bene le cose che sono state chieste. E così dalla matematica alla tv, dalle sue paure ai suoi libri nelle interviste si compone l’enorme puzzle Wallace, fatto di montagne russe tra l’alto e il basso, la nicchia e il pop, il tutto con la voce ironica a disincantata di una delle poche guide al nostro Occidente, capace di andare in lungo e in largo tra male e bene, superando anche l’unico confine dato: quello della pagina. E leggendo in “Un antidoto contro la solitudine”, l’intervista a Laura Miller (data nel 1996) dopo poche domande si può trovare un manifesto della scrittura di DFW, che riassume tutto quello che verrà dopo: «Io mi sono sempre considerato un realista. Mi ricordo che al master litigavo con i miei professori. Il mondo in cui vivo è fatto di duecentocinquanta pubblicità al giorno e un numero incalcolabile di opzioni di svago incredibilmente piacevoli, la maggior parte delle quali sovvenzionate da aziende che vogliono vendermi qualcosa. L’impatto che il mondo ha sulle mie terminazioni nervose è legato a doppio filo con la roba che certi intellettuali con le toppe sui gomiti della giacca considererebbero “pop”, insignificante ed effimera. Io ne uso parecchio di materiale pop nella mia scrittura, ma il significato che gli do non è affatto diverso dal significato che aveva per altri scrittori, cent’anni fa, parlare di alberi, di parchi e di andare ad attingere l’acqua al fiume. È semplicemente il tessuto del mondo in cui vivo». Il nostro mondo.

[uscito su Il Mattino]

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1 thoughts on “Il rapporto tra chi vede e la cosa vista

  1. dr. Gonzo ha detto:

    Repetita iuvant: “Quella bandana, l’unica sindone possibile”

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