Libertà non è partecipazione ma appropriazione. Libertà è Roba, e possesso di questa. Almeno a guardare i ribelli libici che si fanno fotografare sull’Airbus A340 di Gheddafi a Tripoli. Il kalashnikov sulle ginocchia e il telefonino fra le mani per scattare la foto ricordo della meta raggiunta, i luoghi, le case e le cose di Gheddafi, normalizzate con la presenza di ragazzi: che come i loro coetanei occidentali, si fanno ritrarre di fianco alla star, o nei luoghi che furono della star. C’è chi si sente un pilota per un giorno, chi rais per qualche ora, disteso nel suo letto. Altri salutano dall’accesso all’aero, sulla pista. Prima erano state le case del dittatore e dei suoi figli, in scene che sempre uguali si ripetono: dalla Romania all’Iraq. Guardando le foto degli assalti alle case dei dittatori si può sentire: “andiamo, venite, andiamo” che scandisce la voglia di rivalsa, bisogna prendersi tutto, ancorare la libertà che manca agli oggetti di valore, depredare il capo per pareggiare il vuoto della democrazia subito. Hanno l’ansia degli alpinisti quando danno la caccia alla meta, e forse anche la loro soddisfazione, ma un domani diverso. Perché l’alpinista sa che il monte, la cima, non gli appartengono, con il ribelle c’è il rischio che possa pensare proprio che l’aereo gli appartiene, la casa gli spetti, il divano sia un cimelio della lotta. E spesso è proprio quell’appropriazione a trasformare il ribelle in bandito, la giustizia in furto, la rivalsa in omicidio. Lo so è sottile il confine, tra l’esibizione del potere che ne faceva Gheddafi – anche se poi dormiva in tenda – e la violazione che è la prova della sua caduta e della sua effettiva relegazione alla tenda e quindi alla precarietà. Continua a leggere