Quando Adorno formulò l’assioma dopo Auschwitz non si può più fare poesia, Primo Levi in una intervista ribatté: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz. Non vorrei che fra qualche giorno si debba fare poesia solo sulla Striscia di Gaza. Ma già stasera vedere il giornalista palestinese Wael Al-Dahdouh che porta in braccio sua figlia (7 anni) morta, dopo aver perso anche l’altro figlio (15 anni, che voleva diventare giornalista come il padre) e la loro madre e sua sposa, annienta ogni altra storia, notizia, e non si può che parlare solo di questo che sta diventando comune a tutte le famiglie “normali” di Gaza. Mercati, piazze, palazzi, case sono macerie, e sotto quelle macerie ci sono i bambini che non sembrano contare. Alla fine le bombe stanno consumando le parole, il cordoglio, persino la rabbia, e sembra che sia questo l’intento di Israele in una vocazione masochista che non vuole più parole ma solo bombe su bombe, pallottole su pallotte e purtroppo morti su morti. Ma come si fa a non dire niente? Come si fa a non cercare di dare conforto a quest’uomo che lavora con le parole e che ora è muto con quello che era il suo servizio migliore, il suo romanzo migliore, il suo articolo migliore: i suoi figli. Come si fa a stare zitti o a pensare ad altro?