Dumas napoletano

Filippo Bornardone, diciassettenne della provincia napoletana, arriva a Parigi in una lucente mattina d’autunno con una lettera di presentazione per il capitano dei moschettieri e una spada in puro acciaio di Pomigliano. Come il giovane d’Artagnan di Alexandre Dumas – nel primo romanzo della saga – squattrinato, intraprendente, guascone, è pronto a mettersi al servizio del re di Francia. Il dio che aveva ripreso le anime dei moschettieri ne “Il visconte di Bragelonne” non è lo stesso di Giuseppe Ferrandino che li ha riportati in vita con “Spada” (Mondadori, pag. 1118, euro 22)Quella che sembrava una storia chiusa, viene scompigliata e apparecchiata in un riuscito romanzo-calco, capace di far proseguire i tre feuilleton dumasiani: con d’Artagnan ancora vivo e a capo dei moschettieri e Aramis che trama contro Luigi XIV, ma soprattutto ci restituisce con maestria la Parigi post-Mazzarino e la corte del re sole alle prese con una intricatissima storia di tradimenti e sotterfugi, coronata da alleanze trasversali e popolata da una miriade di personaggi bifronte che mossi con grazia si contrastano in dispute filosofiche e duelli diplomatici. E se all’inizio il caparbio, sfrontato, coraggioso Filippo Bornardone  che appena mette piede a Parigi viene derubato – con il suo desiderio in petto, la scarsa conoscenza dei sentimenti e l’unica certezza nelle sue doti di spadaccino –  sembra l’Andreuccio da Perugina di Boccaccio nel Decameron, subito dopo diventa uno dei singolari personaggi di Ferrandino: ingenuo al limite della goffaggine, dolce e borioso, esuberante fino all’errore ma anche fortunato e benvoluto. Arrivato in Francia pervaso dalle gesta dei quattro moschettieri, con buone letture alle spalle: cita Platone odia Machiavelli con ragione, non ha molta voglia di leggere, vuole affrontare il mondo, affacciarsi alla vita in modo repentino ma spesso è costretto a ritrarsi per ragionarci su, ha la spada facile (anche se la userà poco), la risposta sempre pronta, il ragionamento fine, i modi fascinosi: grazie all’educazione di uno zio che tutti vorremmo, e i sogni grandi. Per uno sgarbo subito comincia una personalissima inchiesta su Aramis, il cavaliere d’Herblay, fino a farne una ossessione. Insegue d’Artagnan per diventare moschettiere, gli uccide due uomini e non si arrende nemmeno davanti al rifiuto dell’abile spadaccino, e alla fine fa coincidere i due desideri: catturerà Aramis per far piacere al re e diventare cadetto. Ma Aramis è diventato il cardinale Oliveira e rischia d’essere eletto papa alla morte di Clemente X. Filippo scoprirà che la vita non è facile per nessuno, e non basta conoscere il segreto del coraggio spartano e sapere che “l’avventura è un modo per sognare vivendo”. Il giovane meridionale impara presto a muoversi e a controllare il suo istinto, è attento ai particolari e sa prevenire molte delle manovre dei suoi numerosi avversari, come intrattenersi con una folta schiera di belle donne: la cameriera Maria, le figlie del capitano Lefranc, la contessa di Lubon, fino all’incontro con Enrichetta Stuart cognata del re, regalandoci pagine bellissime di dubbio e passione, zeppe di slanci, pensieri audaci e ritrosia, dove si scontrano la volubilità della dama e la suscettibilità e l’inesperienza del giovane. I due battibeccano in musica, discutono delle “cose della vita” e cambiano opinione in poco, si amano e si lasciano ad ogni capoverso, restituendoci l’esile connubio che tutti hanno vissuto affacciandosi all’amore. Ma c’è anche spazio per il sentimento dell’amicizia: si va dal raffinato Levine ai coraggiosi Chavert, Tuissonne fino al turcomanno Kelim, che lo assisteranno nelle sue imprese. Ferrandino con un salto indietro nel romanzo ottocentesco si cimenta nella stessa titanica impresa del suo protagonista Bordandone, con la stessa testardaggine si immerge in un mondo che gli è estraneo e spesso nemico, affronta il male, sopporta le cadute e le ferite, avanza seguendo il sogno senza desistere, tergiversa, affronta, perde, viene ferito, e alla fine ne esce migliore. Tenere testa a Dumas, senza far perdere colpi ai suoi meravigliosi personaggi, continuare la sua storia e riempire mille e fischia pagine senza far cadere la leggerezza dello scrittore francese, la leggibilità degli intrighi, inventando nuovi personaggi, è una impresa che fra tremare. Ma il progetto di Ferrandino è doppio, riscrivendo fa i conti con i propri sogni – non cominciavano da lì le responsabilità? – e ridando vita agli eroi della sua/nostra giovinezza: li distrugge, rendendoli umani. Tutti sono deboli, nessuno è giusto mai, non esistono virtù perfette ma solo apprendimento per accumulo di errori. Persino il d’Artagnan – che all’inizio ha il viso pieno di luce sul quale passano tutti i canti di Omero: Ulisse e Achille insieme – si scopre non immune da atti ignobili. Aramis un vile con una sconfinata fame di potere, Porthos un complice o peggio un indifferente – e le pagine che li vedono bere, discutere e confrontarsi con le accuse di Filippo sono puro Borges, apoteosi della finzione letteraria. Demolendo un mito se ne costruisce un altro, battendo un vile si libera il campo ad altri, si risponde in modo diverso alle domande di sempre, e forse il segreto sta nella semplicità dei soldati: poche certezze e voglia di andare.

[uscito su IL MATTINO; agosto 2007]

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