Domenico Rea, una vampata di rossore

131155712-937a7a0d-3c37-414b-9d7c-a50e9645bb4eLa sua Nofi, fa quasi tenerezza nel candore e nelle risposte dei cittadini. Un vago ricordo in pochi. Ecco cosa rimane di Mimì Rea. Una strada e una statua. Il resto di niente. Almeno qui, a trenta chilometri da Napoli. La realtà è amara, diversa da come la si immagina. «Rea chi?»…«No, non lo conosco»…«’A via?»…«’O regista?»…«Ubaldo Rea?» Sorprendono, non poco, la dimenticanza e i balbettii persino di un commesso della libreria che precede piazza Diaz. Come la risposta di un impiegato comunale: «non so niente, chiedete ai vigili». Quasi che Rea, il suo ricordo, fossero una questione burocratica da far sbrigare ad altri. Lontano dai propri incarichi, dalle normali mansioni, un peso da liberare, che non rientra nei compiti assegnati. E un ragazzino, subito dopo, suggella il nostro sconforto con quel «Rea chi?» Che fa arrossire, e spiace, ovviamente, tanto che gli chiediamo che scuola frequenti: «il liceo». Ecco. Sarà un caso ma nel tragitto che porta dal municipio alla via del corso, teatro del passeggio domenicale, di Rea rimane poco, pochissimo, giusto un «sì, mi ricordo», strappato in corsa. Con rimandi ad altri. Al prossimo che saprà fare meglio. Che avrà avuto tempo e voglia di leggere le pagine di uno scrittore che qui è cresciuto ed ha passato molta della sua giovinezza e che da qui ha cominciato a vedere i suoi fantasmi, a trarre spunto per i suoi racconti, a sapersi guardare intorno –  e anche se è partito – non ha mai smesso di usare questa realtà, trasfigurata, portata in giro, sfondo, fino al termine delle sue storie. Strano, Rea in vita è stato famoso, nel 1993 con Ninfa Plebea ha vinto lo Strega, con alle spalle numerosi libri (narrativa e saggi), non è stato uno scrittore “escluso”, tutt’altro, fin dall’esordio, colleziona premi ed elogi, critica e pubblico. Mette in fila nel giro di poco: Spaccanapoli (1947), Le formicole rosse (1948), e Gesù, fate luce (1950), oggi introvabile, però. A Napoli non si parlava d’altro. Emilio Cecchi scrisse che la sua prosa era “un’esplosione a lampo di magnesio”, Francesco Flora la paragonò a quella di Leopardi. Annamaria Ortese in un racconto de Il mare non bagna Napoli, ne fece un ritratto non privo di timore – aveva tinte forti e sfociava nel biasimo –  cogliendo appieno l’animo dell’uomo: “Eravamo sopraffatti da una sorpresa continua, come se il giovanotto che ci stava davanti non fosse un cittadino, ma una forza della natura, una natura epilettica e continuamente sorprendente…la sua visione della vita andava al di la’ dei meccanici contorcimenti del popolo. Queste cose egli le descriveva in modo perfetto, ma remoto, essendo egli stesso remoto, antichissimo figlio della natura…così che la parte più attiva e più vera di lui era in quelle sue cupezze…” L’operaio “chiassoso e pallido” con la tessera n°200774,  che ha fatto un percorso diverso, ha inchiodato il suo tempo e il suo sud. Li ha fermati per sempre, con due raccolte di racconti – che ancora oggi non risentono degli anni – e il saggio Le due Napoli scritto nel 1950, tra i più citati quando si tenta di dare voce alla città, quando si prova a raccontarla, testo dal quale nessuno si sente escluso, che tutti hanno letto, riletto, interpretato, e dal quale molti sono partiti per capire il fondo, i suoi lati oscuri, immersi, discosti. Una ritratto divenuto fisso: Le due Napoli, un modo di dire, anche a sproposito. Sarà che da qui il Vesuvio si vede al contrario, da dietro, inverso, una immagine anomala, difforme da quella consegnata all’immaginario collettivo, si fatica a inquadrarlo. Al collo una bavetta di neve e sulla testa una grassa corona di nuvole.  Troneggia sullo sfondo. Sotto tutto scorre tranquillo. È domenica. Fa freddo, ma questo non impedisce ai nocerini di rinunciare allo struscio, alla passeggiata dopo la messa, alle chiacchiere in piazza prima del pranzo. C’è una luce chiara che risplende sui volti delle ragazze, e un morbido vento che serpeggia fra la folla, fischia dolce sulle teste. Accompagna il passeggio. Gioco di sguardi famelici in cerca di corpi, di particolari da cogliere, velati e non, donne, uomini, storie da afferrare nel passeggio fra un commento e l’altro, con il giornale sottobraccio, i programmi per la sera, il passo lento di chi ha tempo da perdere, di chi può concedersi l’incedere della ricerca. Struscio/ rummore domenicale/ gonnelle e facce belle/ pensieri ’e carne/ s’arrescetano/ ca’ prima campana/ e  si stutano/ s’addormono/’ncoppa ’a tavola. Se non lo fanno loro, gli rendiamo omaggio noi, con il dialetto, che risplendeva in bocca ai suoi personaggi da basso, vicolo, cortile, campagna: sottoproletari della Napoli e della Nofi che furono. Contrabbandieri e fascisti. Cocchieri e ragazzine. Meschini ambigui meridionali, donne generose, carnali, combattive. Un universo variegato, capace di catturare ironia e cupezza, triste rassegnazione come quella del ragazzino Cummeo, o trasognata visionarietà come quella di Rita, protagonista di una delle storie più riuscite di Rea: Una vampata di rossore. In piazza Amendola, dove per un tempo abitò lo scrittore, c’è la sinistra giovanile che raccoglie firme. Sì, l’hanno letto. «E la rimozione?» Luciana Mandarino, 27 anni,  – dice che «l’eccessiva difesa della famiglia forse ha creato il distacco», la nonna cugina di Rea, ricorda solo l’attenzione esagerata nell’alimentazione e gli omaggi da santo che gli tributavano i parenti. Le fa eco Giuseppe Afeltra, il segretario (nipote del famoso Gaetano): «È vero c’è poco per ricordarlo. Ma abbiamo problemi più grandi». «Tipo?» «Situazioni sociali degradanti. C’è bisogno di più asili nido, assistenza, programmazione». Intanto sfilano coppie allegre con carrozzine al seguito, bambini lamentosi, e gruppi di ragazze che sciamano con protesi telefonante. Addore ’e paste/ guantiere portate ’mbraccio/ a spasso/ nazzecate/ comm’ ’e creature/ denuncia ’e stienti. Il bar Vitolo, meta delle passeggiate di Rea, non c’è più. Il palazzo danneggiato dal sisma dell’ottanta, transennato. «È tutto passato. Quelli che si sono occupati di Rea adesso sono morti». Ci dice Nicola Padovano, medico a Salerno, figlio di Ferdinando sarto dello scrittore. Custode di una lettera spiritosa, divertente, indirizzata al padre, nella quale Rea gli chiede «tagli più giovanili», perché «nonostante gli anni, mi sento un ragazzino». A Francesco Attanasio (65 anni) sarto ora, ragazzo della bottega di Padovano allora, brillano gli occhi con i ricordi. Il viaggio da Nocera a Napoli per consegnare i vestiti allo scrittore, divo, che elargiva laute mance. Si emoziona ancora oggi, tanto da confondere i titoli. Una vampata di rossore. Ci dice anche che c’è un suo amico portantino che sa tutto su Rea, ma è di turno. Giuseppe  Siniscalchi, medico di Nocera (71 anni), occhiali scuri. Per quaranta anni è entrato nelle case dei nocerini. Ricorda Rea in piazza e all’associazione sportiva, immerso in domeniche come questa. «Certo che faceva apprezzamenti guardando le donne per strada, l’eros era fondamentale». Elegante nel portamento e nel colloquio, voce da gagà, accento napoletano, il dottore è un personaggio buzzatiano: passeggia solo, non ha perso legami con il suo paese e soprattutto ha memoria. «Nocera non si accorse subito della grandezza. Lui veniva da un percorso non classico, aveva una scrittura anomala, non priva di qualche sconcezza, e questo non piaceva. Sì, c’è stata qualche scintilla fra lui e la città» ma dopo una pausa, liquida tutto sorridendo: «i giudizi cattivi si dicono in famiglia, a chi si vuole bene». E ’a scumma/ ’a scumma saglie/saglie sino a ’ncielo/’nterra restano/e scorze int’ ’a rena/scorze pe’ puorci/occhi ’e cane/creature vattute/vite arrepezzate/arragge ’e pietto/dispietto/portoni ’nchiusi/feneste ’nserrate/facce storte/ scure/ areto/arrobbano ’a vita/ spiano/ ’nciuciano/ ’mpastano/ si chiamanno paisi/ma so’ pene senza reati/ carceri ’e pensiero. Buonanotte Nocera.

[2005]

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1 thoughts on “Domenico Rea, una vampata di rossore

  1. […] scampoli di Eduardo, che vedeva Luciano De Crescenzo ironicamente spiegarla all’Italia, e Domenico Rea raccontarne il dolore e la vivacità. Eppure non è mai diventato un ricordo, nonostante lui provi […]

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