Troppacqua

come se fosse affiorato l’odio, salito su con l’acqua – tra l’altro il reverendo Johnson l’aveva detto e ridetto senza che nessuno gli andasse dietro – ed eccomi qua a pettinare il tetto del mio furgone; mi sento Achab: avete presente il tipo alle prese con la balena bianca, ecco, quello, solo che io al posto della balena ho una tempesta, ed ha vinto lei, aspetto la sua compassione e non so quando arriverà, solo come un cane con la schiuma alla bocca maledicendo l’acqua che gira e rigira il mio cazzo di furgone che è diventato una zattera, e no, non ci sono balene, forse qualche alligatore che uscirà a fare giustizia delle nostre distrazioni, e non sapevo nemmeno che in momenti simili uno può mettersi a pensare, dico: aspettando la fine, in un giorno che è caduto addosso alla mia città, non ho ancora scelto quello che sono e questo mi fa incazzare, perché a stare quassù oltre l’umido c’è una provvisorietà che offusca i pensieri con il tempo al futuro, ma una cosa l’ho capita: non sai mai quando la tua balena emergerà consegnandoti a un momento come questo, di assoluta solitudine e sì, tremenda paura, e avere una pistola e saperla usare: non serve a nulla, se non a difendere questa storia, dove ho vissuto e vivo anche se non so bene fino a quando; e pensare che da piccolo volevo diventare macchinista per non stare fermo, andare in treno da un posto all’altro, ma no, non avevo calcolato l’acqua né le balene, avevo immaginato la mia strada omettendo gli uragani, evitando l’ignoto, avevo capito che il trucco era quello: arrivare in salute nei punti stabiliti, non finire a fare la carne congelata in mezzo a un fiume in una alba di nubi basse e pioggia fredda,

foto di Robert Galbraith