Sottratto alla velocità e al dramma “The Old Man and the Gun” è un film di genere che ci mostra l’invecchiamento del genere. Lo accompagna verso la fine, come accompagna l’ultimo ruolo (ha detto che smette, noi speriamo che ci ripensi) di Robert Redford. Nato da una storia vera – quella del rapinatore Forrest Tucker e grande evasore: le due cose vanno di pari passo – raccontata sul New Yorker da David Grann e allungata sul grande schermo da David Lowery, anche regista del film, che l’ha pensato come un lunghissimo omaggio a Redford e ai suoi personaggi precedenti (soprattutto Sundance Kid in “Butch Cassidy” e Johnny Hooker de “La stangata”) uscendo dalla velocità impressa al genere, e riportandola negli anni Ottanta (tutto ha un tempo differente, analogico, dai registratori alle telecamere a circuito chiuso, una fuga dalla realtà e dal cinema di oggi), al respiro di un rapinatore che con eleganza svaligia banche, sorridendo, senza ansie, sudore né parolacce da rapper. Redford/Tucker danza tra direttori e sportelli, modulando i suoi passi sulla radio della polizia, che ascolta da un apparecchio per l’udito (lo stesso che aveva Truffaut), fuori ad attenderlo a volte ci sono due vecchi complici Danny Glover / Teddy Green – i cui movimenti sono un genere narrativo –, e soprattutto Tom Waits / Waller: che ormai ha la voce che ricorda lo sferragliare di un vecchio carrello nelle gallerie di una miniera, e racconta una grande storia di Natale. A inseguirli (con baffi da Paul Newman) c’è Casey Affleck / detective John Hunt, in mezzo una donna con i cavalli: Sissy Spacek / Jewel. È un film piccolo, che ha la delicatezza della terza età e l’audacia delle ultime volte, la voglia di voler uscire ancora dalla finestra, ma senza grandi gesti, a piccoli passi, e ci riesce benissimo. Due scene segnano la riuscita del film: l’incontro tra l’inseguitore Hunt e Tucker, che è un Tarantino lento, e senza tutta quella vernice – che poi ci piace tanto –: c’è una tavola calda, un bar, e una cravatta da annodare meglio, poggiandoci sopra un sorriso, quello bellissimo di Redford – il più bello del cinema, dopo quello di Claudia Cardinale s’intende –; e l’inseguimento del bandito, che non ha ritmo, è accompagnato da una canzone folk (“Blues Run The Game” di Jackson C. Frank) e fa ripensare al funerale di “American sniper” (film di un altro vecchio con stile: Clint Eastwood), perché è la cerimonia di un inseguimento che è durato per tutta la vita, il bandito sul viale del tramonto se ne va a spasso con una coda di auto della polizia, dribbla lento le altre auto, buca incroci, e si avvia verso una delle ultime cose che mancano alla sua lista di azioni da compiere prima dell’assenza. Sfila per le strade più che correre, lento consuma la sua passerella, in fondo gli vogliono bene tutti, anche i poliziotti. Perché lui non spara, persuade; non minaccia, convince; non infierisce, conforta. Ferito lo ritroviamo a cavalcare, in poncho, e sorridere. Ora sappiamo delle sue sedici fughe, e sappiamo anche che una epoca sta finendo, è finita, quella dei grandi film con stile, e quello stile è Robert Redford, un rapinatore col cappello (un borsalino), che si toglie solo andando in fuga e baciando il suo ultimo amore. Da una banca all’altra, dalla prima all’ultima, si prova ancora stupore a vederlo muoversi con eleganza, fuori dalla piattezza atemporale del cinema, mentre ancora va in fuga nei ricordi (nostri e di lui spettatore a sua volta), una fuga eterna che coinvolge emotivamente, senza nessun bisogno di elementi di facile spettacolarità. And he was smiling.