Dalle lacrime alle lacrime

insigne-gabbiadini-660x420Dalle lacrime alle lacrime. Dall’infortunio al gol. In mezzo: ospedale, operazione, ingessatura, stampelle, riabilitazione, depressione, ripresa, allenamenti, inserimento, pochi minuti, mezza partita, una partita, dribbling a vuoto, tiri alti, assist riusciti e assist mancati, e, poi, con una determinazione materialistica, a cancellare l’intermezzo di dolore e attesa, il gol. Lorenzo Insigne portando il pallone dalla metà campo napoletana – lo intercetta sulla sinistra: era di De Silvestri per Palombo – e avvicinandosi all’area di rigore della Sampdoria, si produce in una esplorazione di se stesso, muovendosi tra logica e fisico, avanza superando tutta la dialettica della negatività che lo ha invaso, pensando e ripensando al gol che lo riporterà nel calcio e negli occhi del San Paolo, e prima ancora della difesa sampdoriana, deve tenere a bada i suoi timori, alla svelta, con il suo passo esitante che contiene un continuo movimento che disorienta chi lo in-segue: Palombo, Silvestre e Romagnoli; con il suo ritmo bailado: fai finta di andare, non vai, poi vai; e, quando decide di calciare – da fuori area come il suo idolo: Alessandro Del Piero – prima che arrivi Silvestre a farsi muro chiudendogli lo spazio, lascia partire il pallone, dandogli un effetto a giro, beffardo, e spedendolo nell’angolo alla sinistra di Viviano. Imprendibile. Una parabola che contiene un anno di dolore, calciato lontano, rispedito al mittente, un dramma rimesso al tempo. E, dopo: le lacrime. Sull’indole e l’estro. Il talento e la volontà. Un gol che lo riporta all’essenza del campionato – perché non basta entrare e crossare, entrare e dribblare, bisogna entrare e segnare – dove l’infortunio passa e il gol resta. Lacrime per il più destro dei tiri che rilascia in corsa Lorenzo Insigne, che restituisce l’ordine nella sua carriera e la speranza nella squadra di Benitez, che dice al San Paolo – che lo fischiò –: sono tornato. Lacrime che suggestionano tutti, che cadono sull’estetica costruzione calcistica: partita dai suoi piedi; lacrime che da Insigne scendono sui compagni: da Gabbiadini a Higuain toccando Callejon e il suo sguardo da processione spagnola, e che dai loro abbracci arrivano allo stadio. Un passaggio che suggestiona – coinvolgente e solidale – materializzandosi negli occhi dei tifosi, e dall’eco della sofferenza si passa agli applausi del piacere, che allargano la vittoria su Mihajlovic. Era dalla punizione al Borussia Dortmund – costò un dente al portiere Mitch Langerak – che Lorenzo Insigne non riassumeva la sua essenza in un tiro:  spogliandolo dei tatuaggi che lo coprono e dalla maschera da calciatore truzzo, e mostrandolo in tutta la sua fragilità. Piange Insigne che fuori dal campo produce discorsi a frammenti che non si sa mai da che parte conducano mentre in campo ha un precisione militare. Vive in questo doppio linguaggio: confuso e fragile fuori, preciso e forte dentro, in mezzo c’è un ragazzo che ha avuto paura, di perdere tutto, dal posto in squadra al privilegio di segnare nel suo stadio (con la fascia da capitano), nello stadio che sognava anni fa da una bancarella in un mercato nell’hinterland napoletano, in una confusione immaginativa che è diventata pura realtà. Ci è riuscito rimanendo felicemente se stesso, continuando a lumare le porte con il pallone come i suoi coetanei le ragazze, sopportando i «sei molle» di Zeman che lo hanno rafforzato e portato al Napoli, e poi subendo la cura Benitez: prima la competizione con Mertens e dopo il reinserimento graduale, trasformando la solitudine empirea del campione promesso nella perfezione collettiva del ragazzo inserito che si scioglie nei tiri irripetibili. Insigne ha imparato a soffrire, ha appreso la misura del vuoto: cadendo; per questo ora è pronto per essere il nome che si fa suggestione popolare e viene urlato in certe notti, quando mette in porta dei palloni impensabili, e può persino concedersi un lembo di decorosa malinconia per il dolore superato, dribblato, e lasciato dietro.

[uscito su IL MATTINO]

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