Cerruti: surrealista della parolaccia

Il suo immaginario andava dal West ai porno tedeschi passando per le pubblicità. Univa la voce narrante da grande documentario – rubata al film “Bedazzled” (1967) di Stanley qualcosa, no, non Kubrick, un altro Stanley, Donen – che, però, raccontava l’indicibile. Era un surrealista della parolaccia – sua è l’invenzione del verbo traire che non c’è in italiano ma scritto così in francese è mungere – Alfredo Cerruti diceva quello che si poteva pensare a bassa voce, anzi, quasi lo cantava. Al centro delle canzoni del gruppo che aveva fondato – Gli Squallor: con Daniele Pace, Totò Savio, Giancarlo Bigazzi – c’era un mondo sotterraneo di ammicchi e rimandi, che, poi, divenivano esplicitazioni di desideri o racconti di delusioni, imprese mancate, riflessioni assurde che univano John Ford e la zia Woller. Si rideva molto, complice il whisky, per trovare qualcosa di simile ai suoi flussi cantati bisogna guardare le tavole di Andrea Pazienza, le paginate di parole con errori e licenze logiche. La libertà stava nel parlare di tutto, soprattutto del cazzo e della figa (a dire vulva non ci si fa, soprattutto scrivendo con la loro discografia davanti), come accadeva tra molti. C’erano problemi pratici come l’uso delle corna, che andavano capitalizzate ad uso milanese anche se cantate in napoletano, la leggerezza di certe fidanzate – diciamolo che molta della libertà sessuale maschile è passata da quei dischi –, o i desideri di alcuni monsignori resi espliciti come e più de “Il caso Spotlight”. Nelle canzoni passava di tutto, anche Cesare Ragazzi, uno dei tormentoni, che, però, era calvo. Prima delle rime dell’italianorocker di Ligabue, prima delle libertà degli Skiantos e di Tondelli, o della forza del “Male” e “Cuore” ci sono stati gli Squallor, e con loro soprattutto Alfredo Cerruti. La sua voce, le sue trovate nei monologhi, un po’ grammelot un po’ parlesia, veri e propri liberi racconti vonneguttiani, che venivano da ore di ufficio e provini, era un discografico serio, che però prendeva servizio dopo le 14. Più che cantare faceva spoken, parlava sulla musica, dando lezioni a Gil Scott-Heron e a tanti altri. Così nascevano personaggi e storie come labirinti. Rovesci del mondo che ci invadeva. Giochi di parole prima di Bergonzoni e Bartezzaghi, con un nonsense che diventava filo conduttore, con la esse tenuta per i plurali stranieri prima di Paolo Conte – films e clubs –, gli bastava invertire o cambiare una consonante – la bar-ca va, la scia la an-ta-re – per rendere un verso banale un messaggio in codice senza senso che portava risate; con i soprannomi e le chiare allusioni come “Albachiava” che nemmeno Vasco Rossi si poteva permettere. Perché Cerruti era la linea invalicabile per tutti gli altri. Immagini e racconti che riconducevano sempre al sesso, ma con la risata, la parolaccia era una precisa sintesi che permetteva lo smarcamento dall’ipocrisia, divenendo sintesi d’unicità linguistica per il pubblico da Trieste a Lampedusa. Non c’era mediazione borghese, i pompini sono arrivati alle orecchie di tutti come se a cantare ci fosse Henry Miller o Philip Roth, e la sua Marilyn, il suo Tropico e il suo lamento era Mina. La signorina Tampax, invece, anticipava le donne di Stefano Benni, in “Casablanca” si svelava il sogno di quasi tutti i gay italiani di allora: essere Raffaella Carrà, e via così, senza preoccuparsi degli scandali o del comune senso del pudore. Cerruti aveva ben chiaro il rapporto tra i sessi più di Alberoni o altri, sapeva che nella carnalità, nello scambio sessuale – di qualunque genere – non ci può essere misura né codice, e lo rendeva esplicito, diceva quello che solo pochissimi e nei romanzi avevano scritto. Portava al grande pubblico la verità che i confessionali conoscevano, che le camere da letto vedevano applicato, ma che doveva rimanere mistero. In più, lo faceva senza nessuna cattedra, anzi, lo buttava in faccia a tutti con una pigrizia da pizzeria. Il suo mezzo preferito era il telefono, la comunicazione a distanza, la possibilità di farsi maschera e scherzo con la voce, come accadde poi nelle trasmissioni con Renzo Arbore. Il suo romanticismo – pensabile solo attraverso i chilometri di un camionista – era la sincerità dei desideri senza finzioni, applicava con moltissima classe la velocità dei porno alle storie normali. Sapeva che si perdeva la testa, come pure che la dinamicità del sesso era da porta girevole anche se nessuno voleva accettare questa verità, e non aveva nessun rispetto per l’amore o l’epica, da Omero a una pereta qualunque passando per Serge Gainsbourg tutti erano buoni per essere presi per il culo. Cerruti è stato, senza accorgersene, il nostro Roland Barthes acclamato dal popolo, consumato in dischi e cassette, mentre de-costruiva le strutture sessuali di religione e tivù, e rivelava verità e strade nuove, in brevi discorsi, ridendo.

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5 thoughts on “Cerruti: surrealista della parolaccia

  1. Elio Ferrara ha detto:

    Bravissimo il giornalista che ha scritto questo pezzo, è riuscito a dare una motivazione culturale ed ideologica ad un brillantissimo inventore e dicitore di cazzate , cosi’ come i critici d’arte moderna lo fanno per artisti di arte Pop

  2. Aurelio Tito Faccilongo ha detto:

    Bellissimo articolo!!! Alfredo era propio ciò che hai descritto tutto ciò gli veniva istintivo ..un grande provocatore di razza.

  3. tizianotoniutti ha detto:

    Bellissimo pezzo e bellissimo ricordo, grazie

  4. Juan Riccio ha detto:

    Che bravo, Ciriello! Un ricordo di un personaggio non noto ai più, anche se la sua opera nota lo era – e come! Ricordo gli spot in TV: “Ciao, comprati Arrapaho”: erano i conformisti anni 80, e persino la pubblicità ha dovuto avvolgere il proprio linguaggio intorno al modello offerto dal bene pubblicizzato 😛

    Ho apprezzato le varie citazioni, dotte o popolari, e ho imparato una cosa nuova: ignoravo che negli Squallor ci fosse anche lo zampino di Giancarlo Bigazzi.

    Se ci fosse un feed RSS per i suoi pezzi, mi ci abbonerei. Intanto lascio un indirizzo email “vero” per eventuali altre notifiche. Complimenti.

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