Le pescatrici del Kowloon hanno un tempo oscuro e segreto che le insegue e trattiene con l’enigma dell’acqua, ingannandole con i suoi giochi e avvolgendole nell’arcaica eleganza del mare. La loro è una galassia cinematografica che non ha ancora trovato un regista, a volte ne parlano gli uomini che hanno conosciuto le pescatrici ma sulle loro bocche i fondali appaiono un frastuono di motori. Nessuno riesce davvero a restituire la bellezza delle pescatrici, perché nessuno può andare con loro. Una cosa è percorrere affettuosamente i loro corpi in sparute sere, quando si sentono sole e si lasciano andare raccontando le “nuove vie” – anche se con una intensità divagatoria che non lascia nessuna speranza di apprendimento, che non concede appigli –; l’altra è sperare di avere la stessa voce arcaica o le stesse esperienze marine. In loro c’è una dignità che è quella dei pesci, tetramente esibita quando ormai scorre la fine, mentre per tutto il tempo si può riconoscere l’astuzia degli oziosi, sì, perché le pescatrici sfoggiano la loro aristocratica dimensione di dee, il sorriso orfano di chi sa di avere un privilegio enorme, il trofeo della conoscenza ristretta e il non avere vincoli di tempo proprio come quel dio diffuso, declinato e tradotto sul resto della terra. Appartengono a una ristretta cerchia che può esibire la subdola infantilità di una potenza, possono uccidere e imporre il loro volere, anche se avviene di rado. Così nella smodata
produzione di materie false, ricalcate, rimangono l’unica esibizione dispari di bellezza autentica, per questo sono venerate. Conoscono tutti gli incroci marini e, volendo, potrebbero evitare i pasti del mare, e a volte lo fanno, quando conoscono l’indifesa petulanza del pescatore che continua a sfidare l’aggressività delle onde, quando hanno voglia e bisogno di alimentare la favola del loro essere. Usano la lievità irresponsabile di certe piogge estive, aspettando gli incidenti santificanti come visite. Vedere gli uomini barcollare e cadere con una congenialità che chiamano “vocazione alla rovina marina”, come giostre rotte, sommersi da un improvviso cambio di vento o da una onda che colpisce e stravolge, le riporta alla mitologia bambina, dove prima il dispetto e poi la carezza, smentiscono la natura assassina del mare e confermano quella intima e generosa che si portano in petto. Evasive, possessive, chiassosamente possedute dalla gioia solitaria dei fondali, sono immuni all’angoscia ma non alla decadenza. Loscamente si tengono alla larga
dagli uomini dopo i due secoli, quando cominciano a piegarsi, quando tutto il mare visto comincia a depositarsi sui fianchi e le spalle. Solo allora vengono colte dall’irreversibile nostalgia per la terra perduta, alle sprovvedutezze delle donne normali, ripudiando tutte le impaccevoli gramaglie dell’essere dee, riscoprono il valore della verginità e diventano aggressive e spregiudicate con le altre pescatrici, quelle che ora scoprono la meritata freddezza del darsi senza pensiero. Ma le pescatrici di Kowloon vivono nello spreco della virtù, il loro scopo è legittimare la grandezza dell’acqua senza tener conto della propria bellezza, non devono conoscere né l’amor patrio né le fondamenta morali degli stati, esistono per produrre l’inquietudine, lasciando il sospetto negli stranieri di essere tendenzialmente cattive, scoraggiandoli.
A Giorgio Manganelli
foto di Hyung S. Kim
Mi hai fatto venire in mente un libro letto tanto tempo fa.

allora devo leggerlo, grazie
Grazie a te.
L’ha ribloggato su segatura.
[…] anche aspettato il grande racconto orientale, girava voce che stesse girando un documentario sulle pescatrici del Kowloon, ma poi nessuno lo aveva visto, e non c’era più traccia di lui in giro. Tony Credici per un […]