Ebete con una punta di genialità, amava definirsi. Perso nella recitazione in greco antico, nei versi dell’Amleto e nei trattati di filosofia, rifiutava qualsiasi applicazione che avrebbe preteso la quotidiana praticità. Per una discussione con Flaiano, nessun problema, per riparare una gomma «Non capisco niente».
Sapeva parlare ai bambini, indossando un naso finto con serietà come ne “La famiglia” di Ettore Scola. Dalla sua altezza scendeva al livello dell’anarchia, prestandosi al gioco. Diceva di non aver mai compreso i suoi figli come le mogli, forse solo perché bambino lui stesso.
Un nuovo attore per il teatro italiano. Energico sulla scena, leggermente impettito per l’orgoglio di interpretare Shakespeare, di potenza inesauribile. Tutte caratteristiche che trovavano ragione nel suo passato da giocatore di basket. Solo una volta Silvio D’Amico lo richiamò per un’entrata in scena con una capriola: «Non li devi prendere così gli applausi ma per la recitazione».
Il cinema romantico l’aveva inglobato e annoiato nel suo ruolo di bello, ma è la commedia ad offrirgli una rinascita: Monicelli lo scopre, coprendolo con dei posticci, mentre Dino Risi lo sveste per fargli prendere tempo comico e velocità ne “Il sorpasso”.
Stringe come una guêpière, volteggia con la Mangano in un boogie woogie, con un valzer seduce Audrey Hepburn. Perché Vittorio Gassman sapeva che la parte migliore di un film è il ballo: non ci può essere attrazione per l’immagine se ad ogni giravolta non corrisponde un movimento di camera.
Caprioli, Salce, Squarzina e Mazzarella. Gli anni in accademia sono fondamentali per la sua formazione. Costretti al silenzio e all’obbedienza del fascismo, solo all’interno delle aule riscoprono la libertà dello studio. Un luogo anche dove far crescere amicizia e competizione, trovando la fusione perfetta: Adolfo Celi.
Se la televisione appiattiva il senso critico nella sua bidimensionalità, con “Il mattatore”, Gassman apre un tribunale del popolo per malcostume. Sfogliando i tipi umani del boom economico, attraversando rivista, tragedia, farsa e commedia, restituisce l’Italia del dopoguerra in tutte le sue dimensioni.
Se nella cultura italiana i propri fiaschi si sono sempre minimizzati o taciuti, Gassman andò fiero del disastroso “Un marziano a Roma” con Flaiano. E non solo perché l’insuccesso gli aveva dato alla testa, ma soprattutto perché «meglio un insuccesso d’autore che un successo con un imbecille».
Se senza remore ha disprezzato i suoi ruoli nel cinema americano anni cinquanta, non mancava di riservare pubblicamente un posto speciale per “Il gaucho”, “C’eravamo tanto amati” che «continua a invecchiare bene», e “Il sorpasso”, «un piccolo capolavoro». Tutti sceneggiati o diretti da Ettore Scola, «fratellino» dei teatri di posa.
A chi considera “Il sorpasso” il manifesto della commedia all’italiana, bisognerebbe chiedere se ci sono film che hanno saputo eguagliarlo o almeno emularlo. In realtà dovrebbe semplicemente accontentarsi del titolo “miglior film italiano di sempre”. «Un campanello d’allarme», come lo definisce Gassman, sempre inascoltato.
Anche se non sapeva né pungere come un’ape né volare come una farfalla, da pugile regalò al cinema “I soliti ignoti” e “I mostri”. E proprio perché balbuziente, svanito, frastornato e goffo, smontò quella facciata maschia dell’Italia formato Bordignon per poter cominciare a ridere dei propri difetti. E semo contenti.
Costrinse Ettore Scola ad abbracciare la povertà: da sceneggiatore ben avviato, Gassman lo indirizzò al ruolo di regista. C’è da chiarire se Scola lo volle in tutti i suoi film più importanti per ineguagliabile bravura o per restituirgli quella dose di infelicità conosciuta solo tramite la direzione di un film.
Le tournée teatrali diventarono crociate, i vestiti di scena armature e tutte le attrici gazze ladre. Per “L’armata Brancaleone” Vittorio Gassman si trasformò agli occhi dei figli in un avventuriero di mestiere. Un’idea non del tutto sbagliata visto che la strada per Cinecittà è costellata di mostri e pericoli, che si superano solo grazie a una fede incrollabile.
Il ruolo di attore gli è sempre stato stretto. Abituato a confrontarsi con i testi, si professava un intellettuale fuori posto, e con la maturità la scrittura ha occupato un posto maggiore. Ha trascorso la vita a recitare per poi arrivare a scrivere. Perché «nella seconda vita», c’è sempre tempo.
La competizione ebbe forme diverse: se con Tognazzi fu studio reciproco e con Volonté lo scontro si risolse su un campo di calcio a Crotone, con Carmelo Bene le rivalità facevano fatica ad appianarsi. Troppo simili e troppo giganti per stare nello stesso posto. Del resto nati lo stesso giorno alla stessa ora, per Salman Rushdie sarebbero appartenuti ai figli della mezzanotte del teatro.
Più che un’opera d’arte, “L’alibi” si pone come esperimento scientifico attoriale: portare le esperienze di vita di Gassman, Lucignani e Celi per raccogliere un’enorme banca dati di fallimenti, ipocrisie e promesse disattese. Un gruppo di ascolto per artisti di metà età decisi a confrontarsi con le ombre, non solo le proprie ma dell’intera società. «E ti caghi sotto quando vedi Pasolini».
Per presentarsi gli bastava: «Sono amico di Vittorio Gassman». Una medaglia al valore militare da esibire su ogni giacca, un passepartout per essere nobilitato dal quel cinema impegnato che tanto lo disprezzava. Eppure Paolo Villaggio con Gassman era una coppia comica naturale: un Sancho Panza per il suo Don Chisciotte. Custode e aedo fino all’ultimo di ogni aneddoto. «Non preoccupatevi, rispondo di tutto».
Concesse al cinema americano una seconda possibilità. Se con Proietti diverte tutta la troupe di Robert Altman per “Un matrimonio”, per Barry Levinson con “Sleepers” faticò non poco per togliersi di dosso la depressione dell’ultima stagione. Uno sforzo premiato dalle contemplazioni estasiate di De Niro e Hoffman in molte foto: ammirato come un dio.
Tra le migliori scene della sua carriera, aveva una preferenza per l’incontro con Nino Manfredi ne “Il gaucho”, forse perché dopo tanto energia spesa a vendersi come produttore ricco, conosciuto e di successo, meglio terminare la recita e ridere delle proprie miserie.
«Un attore totalmente sano di mente mi è sempre parso un paradosso inaccettabile, questo non per fare i romantici in ritardo, ma perché credo che sia in contraddizione con questa presenza un po’magica in questo luogo assurdo che è il palcoscenico».
Ha divorato la vita come un crème caramel, un «porsi con autorità» che ha esercitato in tutti gli angoli dell’esistenza. Che fossero film o donne, partite di basket o chilometri in velocità, l’importante era accettare la sfida e vincerla. Forse anche per questo ha eccelso ed è stato un fuoriclasse anche nella depressione. Un principe che non ha mai rinunciato al suo amaro umorismo, anche perché «basta pagare».
[Foto di Giorgio Lotti]