Voler dimostrare all’Atp che il tennista Guillermo Vilas fu numero uno al mondo e che ha commesso errori di calcolo, è una impresa difficile, ma il giornalista Eduardo Puppo l’ha fatto, s’è messo a ri-analizzare partite e numeri, per anni ha cercato prove per regalare alla memoria del suo campione la verità che merita. Mentre Puppo cercava dati, trovava punti e quindi gesti, vittorie, città, campi, tornei, racchette, Vilas perdeva la sua memoria. Un documentario – “Vilas: tutto o niente” (su Netflix) – racconta questa impresa, con i nastri registrati da Vilas che ricordano la sua vita, e i dati messi in tabella da Puppo, una sorta di backstage dietro quelle partite. È un grande atto d’amore: per il tennis, la verità, e la giustizia. Chi non conosce Vilas se ne innamorerà, non solo per il suo mancino o per l’aggressività sotto rete, ma anche per Jimi Hendrix, per la visione del mondo e il suo starci in mezzo, per aver dimostrato che un argentino e uno svedese (Borg) possono essere complementari: «Tu fai schifo nel dritto e il mio rovescio fa cagare, quindi ci siamo aiutati a vicenda». Chi già conosce – e ama – Vilas ci ritroverà i motivi d’indimenticabilità, chi non lo conosce – i più giovani – scopriranno un tennista e poeta selvaggio (sì, scriveva poesie, due libri: ‘125’ –un acronimo segreto che aveva con la nonna materna – e ‘Cosecha de cuatro’, che poi Ilie Năstase leggeva contro di lui, la sera, una volta anche in campo provocandone la fuga), che meritava di più, ma l’Atp, come la vita, è più strana della merda. Compie 70 anni oggi il mancino Guillermo Vilas, lo stesso giorno del generale José de San Martín, sarà un giorno da immortali, chissà, sicuramente è il giorno della nascita del migliore tennista argentino (il primo a vincere un torneo del Grande Slam e, con i suoi quattro titoli, è anche quello che ha vinto di più), che cambiò la storia del tennis del suo paese e anche il rapporto con le vittorie sportive, prima del mondiale di calcio del ’78 e soprattutto di Diego Maradona. Il Clarin oggi gli ha dedicato uno speciale, e tra le tante cose dice che era un hacedor (un creatore, forse meglio un artefice) scomodando Jorge Luis Borges: «Que alguien sepa que eres un hombre». Nell’aria di Mar del Plata si sentiva il tambureggiare della palla sul muro, tutti i grandi cominciano col muro e finiscono per abbattere altri muri (da McEnroe a Borg passando per Panattanostro). Poi dopo il muro arriva quello che ti ha guardato giocare col muro, nel caso di Vilas si tratta di un barbiere (sarebbero contenti Clint Eastwood e Don DeLillo): Felipe Locicero. Glielo presentò suo padre e la discussione è riportata nel libro di Vilas, “Quién soy y cómo juego”: «Guillermo, este señor se llama Felipe Locicero y va a ser tu profesor de tenis». «Pero papá, está viejísimo este tipo».«¿Qué te importa si te va a enseñar a jugar bien?». «Sí, pero cuando yo empiece a jugar bien se va a morir». «¡No se va a morir! Y va a ser tu profe». Vilas mescolava il barbiere e lo scacchista cubano Raúl Capablanca (da lui aveva capito l’importanza dell’osservare e ripetere, osservare e copiare), lo studio compulsivo di Bill Tilden e l’ascolto di Ion Țiriac: affermando spesso che la sua vita era piena di sogni («mi vida está llena de sueños») così è stato. Prima ce li faceva anche vedere, ora no.