Una centrifuga, qualcosa del genere

Carlos MonzónCarlos Monzón a terra ci andava di rado, ma quella volta il ring non c’entrava. Volò giù da una finestra con sua moglie Alicia Muniz, a Mar del Plata. Era il 14 febbraio del 1988 e la loro storia d’amore: finita. Lui si ruppe un braccio, lei morì. Lui disse che lei si voleva suicidare e si era gettato per salvarla. Ma lei era morta prima. Strangolata. Picchiata e spinta. Le provò tutte il pugile argentino per scamparla. Ma non aveva amici e ragioni forti come il professor Stephen Rojack di Norman Mailer, chiamato a rispondere dello stesso reato e a farla franca ne “Un sogno americano”. Anche se qualcuno aveva asportato i muscoli del collo di Alicia, non ci fu niente da fare, le due autopsie lo inchiodavano, un vicino ritrattò la sua testimonianza, e il campione alla fine confessò. Nato nel 1942 a San Javier, poche case a nord di Buenos Aires, lontana come può essere un sogno visto da una baracca. Dodici figli (nove fratelli, tre sorelle) e la fame come incomodo. Fu lustrascarpe, strillone, anche ladro, poi con la boxe: successo, soldi, donne, cinema e spensieratezza, Alain Delon, e pugni: i suoi. Sudore, fatica, amori, monzon1Europa: va avanti e indietro sull’oceano, l’indio della boxe che tutti chiamano D’Artagnan per l’abilità di movimento sul ring, ma che somiglia a Charles Bronson. La sua generazione aveva un sogno comune: la libertà, chiusa e gettata in fondo al mare da: Videla. Lui poté permettersi l’oblio. Ne aveva fatta di strada Monzón da quando Amìclar Brusa gli aveva insegnato a boxare, se poteva permettersi il lusso di non immischiarsi,  riservato solo ai grandi. E lui provò a starci, ma sul ring, lontano da casa. Aveva rabbia e voglia di rifarsi. La boxe: fatta per quello, per concedere occasioni a chi non ha nulla. Prendere o lasciare. Prende poco, lui, in pugni, molto in gloria. È bravo a schivare, pratica una boxe pulita, essenziale e tremendamente efficace. Capitalizza ogni sforzo. Non si lascia andare, ha braccia magre e gambe velocissime, Nino Benvenuti dirà: «i suoi fasci guizzanti mi ricordarono quelli dei cavalli da corsa». Con il sinistro tiene a bada, pizzica, avvicina, apre e con il destro manda in giostra i suoi avversari. «Un incrocio tra un dobermann e un primate. Era come una affettatrice, un tritacarne, una grattugia, una centrifuga, qualcosa del genere» scriverà Osvaldo Soriano. La sua storia comincia in l’Italia, è qui che prende la scaletta per la vetta. Il 7 novembre del 1970, l’occasione si chiama Nino Benvenuti campione del mondo dei pesi medi, un triestino tenace e meticoloso che aveva mandato al tappeto tutti i suoi avversari migliori ed era uscito vittorioso da un triplice match con l’americano Emile Griffith. Alla fine della carriera: un pugile argentino – accreditato in patria – sconosciuto in Europa, va bene per difendere il titolo. L’incontro si disputò al Palaeur, organizzato da un giovane Rino Tommasi. I giornali trattarono BVaudMonzón come un ragazzino che veniva a buscarle, sconosciuto, coraggioso ma destinato a perdere. Così non fu. Monzón partì alla grande: colpì due volte col suo gancio destro il pugile italiano. Il campione tornò pugile solo dopo il quinto gong. Alla dodicesima ripresa gancio sinistro di Monzón, e Benvenuti barcolla, si aggrappa all’avversario, pausa, poi guantoni al viso, Monzón se lo porta fino all’angolo più vicino con una serie di colpi, lo lascia solo quando va a terra. Dopo 81 incontri disputati, 69 vittorie, Carlos Monzón è il nuovo campione del mondo dei pesi medi, ha 28 anni. Sei mesi dopo, l’otto maggio 1971 a Montecarlo ci fu la rivincita. Questa volta è Benvenuti a partire bene, con la sua combinazione: gancio sinistro, diretto di destro. Monzón risponde con una smorfia e un «hijo de puta», dopo non ci sarà più storia, el cholo colpirà anche in modo scorretto – con il pollice aperto –  Benvenuti, troppo preso dall’emotività, per poter gestire bene quell’incontro. Ci proverà in tutti i modi, ma il fisico, i riflessi e soprattutto la tranquillità psicologica di Monzón avranno la meglio. Benvenuti in tre riprese va due volte giù. Alla terza, dopo uno sguardo perso del suo pugile, l’allenatore Amaduzzi gettò la spugna. Fine della carriera di Benvenuti. È questa la boxe: uno a terra, l’altro con le braccia alzate. In mezzo solo il tempo fra gli incontri, in difesa di quelle braccia, di quell’urlo, di qualcuno che ti dica con i pugni: «smetti è ora». A Monzón non lo disse nessuno, almeno non dall’alto, non dopo averlo battuto. Difese il titolo 14 volte, «il meraviglioso» Marvin Hagler arrivò solo a 12. Rimase il_570xN.539957719_t1plimbattuto dal 9 ottobre 1964 fino al 29 agosto del 1977, quando si ritirò. Alle spalle una sfilza di nomi stesi sul ring: 2 volte Griffith, Scott, Moyer, 2 volte Bouttier, Bogs, Briscoe, Dale, Napoles, Mundine, Licata, Tonna, Valdéz andata e ritorno. Lui che poteva vantare di aver conosciuto e frequentato quattro presidenti argentini: Lanusse, Levingstone, Campora, Peron, di aver avuto nella stessa notte e nello stesso ascensore: Ursula Andress e Nathalie Delon, lui che era diventato un racconto di Julio Cortázar: “La notte di Mantequilla Nápoles”, la bestia feroce che voleva farsi signore, che divenne attore e amico di Alain Delon, il ragazzo che sognava il Luna park della lontana Buenos Aires, lui che riuscì persino ad essere commovente in “Soñar Soñar” un film di Leonardo Favio: dove interpretava un sognatore, vigliacco ma sensibile che finisce in galera per stupidità. Lui, cadde lontano dal ring, con sua moglie, Alicia Muniz, e si rialzò in carcere: 18 anni e tutto da rifare. I suoi rapporti con le donne non furono mai sereni, sempre burrascosi, truci, violenti. Quando confessò a Mercedes – una delle sue tre mogli – un flirt con Susanna Jimenez: la Brigitte Bardot del Sud America – conosciuta sul set di “La Mary” di Tinayre – lei  gli sparò. Niente in confronto a quello che sarebbe accaduto il 14 febbraio. El cholo si fece il carcere in attesa di una grazia di quelle che Carlos Menem stava distribuendo. Non arrivò nessun aiuto, qualche vecchio amico sì: Alain Delon, Nino Benvenuti «non vi siete accorti che alla fine di ogni match noi ci abbracciamo?» chioserebbe il vecchio Rocky Graziano. Poi il suo monzon6mondo si capovolse di nuovo. Per l’ultima volta. Era l’8 gennaio del 1995 e Monzón stava tornando al carcere di Junin de Las Flores, dopo un permesso. La sua renault 19 sfrecciava a grande velocità sulla ruta provincial, davanti ancora molta vita e una fila d’auto. Mancavano 40 chilometri a Santa Fé e due ore per rientrare. Fu lui ad andare fuori, in giostra, con la sua auto e il suo amico Geronimo Motura, presero il volo, ancora una volta, questa: senza bugie né inganni. Spettacolare, unico, inspiegabile come un sogno, un incontro di boxe che mima la vita, la mette in scena e mille volte la beffa, riflessi e astuzia, forza e voglia di supremazia. Un solo grande volo che paga quelli scampati sul ring, un solo lungo volo senza il calore delle stelle che lo avevano salvato dalla sua meschinità, dal suo odio, dalla rabbia che veniva fuori: sopra e sotto il ring. Supremo, stupido, tributo alla violenza che si magnifica con un paio di guantoni.

[uscito su IL MATTINO – gennaio 2005]

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