Aspettando il raggio verde nel tramonto

Dritto di fronte al mare, Paolo Rumiz, dà sempre l’impressione di un ufficiale che guarda davanti a sé per muoversi con un esercito. Lo conosco da anni, maestro di scrittura e di vita, ho fatto qualche viaggio con lui, e ogni volta mi stupisce per come conosce il mondo, e per come prima abbia bisogno di leggerlo. Per me lui è nelle sue bellissime cartine geografiche, che leggendo riscrive, che attraversando nella realtà ridisegna.

Scrittore, giornalista, inviato di guerra, per anni, sei andato in viaggio, per poi raccontarlo su “Repubblica”, questa è la tua prima estate senza resoconto pubblico, che farai?

«Mi sono imbarcato in un’avventura da pazzi con un’orchestra giovanile internazionale, ragazzi dai 13 ai 20 anni, per raccontare l’Europa in parole e musica. L’Europa va in pezzi anche perché nessuno la sente come patria e nessuno la racconta come tale. Ma se mi chiedi perché ho mollato con i viaggi per “Repubblica”, è per un istinto nomadico. La stessa voce che ti dice di partire, a un certo punto ti dice di fermarti. Quindici anni di racconti estivi sono già un bel risultato. E nulla dura per sempre. Ora voglio narrare storie ai nipotini».

Come erano le estati del Rumiz bambino?

«Mio padre era ufficiale e mi portava nei cosiddetti soggiorni militari, alberghi sistemati quasi tutti in caserme ex austroungariche nelle aree “conquistate” dall’Italia nel ’18. Tarvisio in Friuli. Colle Isarco presso il Brennero. Estati con figli e figlie di ufficiali. Un mondo a sé. Primi amori esitanti. Prime salite in montagne dai nomi male italianizzati. Il rifugio Becker era Rifugio Bicchiere e nessuno mi spiegava perché. Poi c’era l’estate al mare a Grado. Ricordo i temporali improvvisi, che amavo. E gli agguati della marmaglia locale, figli di pescatori, cresciuti in strada, che ci prendevano a sassate, perché eravamo fighetti di città. E con la fionda eravamo delle schiappe. Ricordo i tedeschi, gli ex nemici, in spiaggia con le ferite e le amputazioni di guerra. Venivano in sidecar».

Dimmi tre estati meravigliose della tua vita. 

«Momenti più che estati. Il passaggio a vela dello stretto fra Itaca e Cefalonia con un gagliardo vento di terra, in un mare color del vino. I miei figli marmocchi che gattonano sulla spiaggia del Canale di Sicilia, verso Sciacca. Una nevicata fuori stagione sopra il Passo Falzarego in Dolomiti».

Hai una canzone dell’estate? Un cibo che te la ricorda? Un libro?

«Il walzer del “Gattopardo” e la pasta alla norma, con pomodoro, melanzane fritte e ricotta affumicata. Ho letto il “Gattopardo” scoprendo la Sicilia. Basta e avanza per esserne posseduti».

Tu torni, ogni tanto, a Pozzuoli (dove ci siamo incontrati anche questa volta), perché?

«Adoro la sua fertilità sismica e vulcanica. Fa sentire con più intensità che la vita va vissuta a morsi. Un po’ come stare a Beirut. Fai tutto subito, perché poi non si sa mai. Forse il più buon vino della mia vita veniva dalla caldera degli Astroni, il piedirosso di Raffaele Moccia, da una piccola vigna terrazzata dalla cui cima vedi il Vesuvio oltre la collina del Vomero, i Lattari, Capri e il mare. E poi ci abita un amico che scalda la casa direttamente con le emissioni del sottosuolo. Gli è bastato fare un buchino in cantina».

Che rapporto hai con l’estate?

«Ora è ottimo. Mare, vela, vento. Ma da bambino, essendo timido e introverso, anzi un secchione con gli occhiali da primo della classe, temevo le estati perché rappresentavano il confronto senza rete con i coetanei. Non vedevo l’ora che finissero. Il mare, non se ne parla. Temutissimo. L’adolescenza, poi, è stata un disastro. Solo dopo i 18 ho cominciato ad affrontare il mondo. Sono cresciuto in ritardo. Sulla soglia dei settanta ho l’impressione di essere adulto solo ora. E anche di vivere intensamente solo al tramonto».

Sai che Pasolini contava a estati la sua vita, faceva bilanci con la fine della stagione?

«No, io la conto a inverni. La mia testa funziona davvero solo da fine settembre a maggio. A settembre, invece dei bilanci, io faccio un preventivo di quello che finalmente posso fare».

Hai dei riti?

«Preparare un pranzo, apparecchiare per la mia donna. Abbellire il poco che è rimasto in cambusa con una bella messa in scena. È meglio che scrivere. E poi sputare versi endecasillabi. Ormai il ritmo per undici mi ossessiona».

Un esempio.

«Così, su due piedi? Aspetto il raggio verde nel tramonto. Senti che brezza che spira stasera».

Nel tuo ultimo libro, “Appia” (Feltrinelli), c’è un viaggio lento, a piedi, fatto l’estate scorsa, dove tu attraversi il Sud Italia, da Roma a Brindisi, cosa ti ha colpito di più?

«Il fatto che terre che duemila anni fa erano il baricentro del Mediterraneo oggi sono diventate periferia nella stessa Italia. Ma anche il fatto che questa marginalità comporta nicchie di originalità ancora poco disturbate dalla globalizzazione. E poi, le terre di Gomorra. Sono quelle dove ho avuto l’ospitalità più “greca”, spontanea, all’antica. Contadini meravigliosi. Ma anche la scarsa consapevolezza che il Sud ha delle proprie bellezze. Il Sud è subalterno a modelli del Nord. Se non americani. Non ha senso».

Hai restituito la strada più antica d’Europa all’Italia che l’aveva perduta, che cosa o chi ti ha dato la gratificazione migliore, rispetto a un gesto enorme da te compiuto?

«Che s’è svegliato un movimento. Che qualcuno mi ha detto che era dal tempo di Carlo Levi che qualcuno del Nord non guardava al Meridione con tanto affetto. Che quello era il modo giusto di guardare la questione meridionale. Che il Sud non ha bisogno di soldi ma di autostima. Ma ho narrato senza peraltro nascondere mai le brutture. Il mio è stato un viaggio in bilico fra incantamento e indignazione».

Tu ormai sei un venerato maestro, e sei anche uno di quegli italiani che costantemente guarda al paese, partendo dalla storia e dalla geografia, lavori sulla memoria, che cosa salveresti dell’Italia? E cosa condanni?

«Salverei le differenze. Gli dei antichi che si nascondono dietro il Dio unico. I santi di paese dietro l’onnipresenza di Padre Pio. I sapori, le coltivazioni originali. I cavatelli e i lampascioni sono le nicchie di resistenza al pensiero unico dell’economia. Non mi importa di trovare la polenta taragna a Ischia. Condanno il familismo, l’antistato».

Mi dici tre posti dove bisogna andare assolutamente e perché?

«Non contano i luoghi, ma le persone. E poi l’ora, la luce, il mood con cui li incontri. È quello che fa unico il tuo viaggio. Anche questo è un endecasillabo».

Il viaggio più bello della tua vita?

«Lo devo ancora fare. Con i due nipotini e la tenda. Per raccontare loro le storie. Non importa dove».

Invece, il tuo primo viaggio?

«A veder arrivare i Bersaglieri a Trieste nell’ottobre del ’54. Me li ricordo ancora. Siamo andati loro incontro di notte, al posto di blocco di Duino. Baciavano tutte le donne che incontravano».

Il tuo mezzo di spostamento preferito?

«Bicicletta. È una delle più grandi invenzioni dell’umanità. Ti dà autonomia senza toglierti il lusso della lentezza».

Cosa ti ha spinto a viaggiare?

«Sapere che sul confine c’era il mondo slavo, a pochi chilometri. La curiosità. La frontiera. La voglia di sorpassarla».

Tu hai scritto quasi di ogni paese del mondo, riuscendo sempre ad avere uno sguardo non comune, in un mondo uniformato e collegato – almeno sulla carta – come hai fatto, come ti sei mosso, insomma, ti sto chiedendo dei tuoi trucchi.

«Non fare mai domande, ma attaccar bottone raccontando me stesso. O facendo intuire chi sono attraverso il mio modo di vestire, muovermi, guardare. Quand’ero in Russia mi bastava salire in treno con la barba bianca il bastone e lo zaino e tutti si occupavano di me, raccontando storie».

A chi ti legge dai l’idea di non stare mai in quiete, ma sempre in moto, come fai?

«Teorizzo la lentezza e vivo freneticamente. È un’apparente contraddizione. La realtà è che per scavarmi nicchie di libertà e pigrizia devo lavorare come un matto. E poi essere conosciuti è una bella fregatura».

[uscito su IL MATTINO]

 

 

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2 thoughts on “Aspettando il raggio verde nel tramonto

  1. […] mi piacerebbe fare un giro d’Italia, adesso sconsigliato da peso e pressione, una cosa tipo Rumiz ma più incentrata sulla […]

  2. […] ha letto “La cotogna di Istanbul” conosce il legame tra Paolo Rumiz – scrittore e giornalista – e la musica, il suo saper annodare la scrittura ai suoni, e non si […]

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