Voleva essere il Grande Gatsby, ma lo fregavano le camicie. Aveva il fisico, lavorava sulla lingua e le facce, ma esagerava con i colori. Uno sciupone di vita e parole. Andrea G. Pinketts, in realtà Andrea Giovanni Pinchetti, «Pinketts, il vero cognome della mia famiglia, fu italianizzato sotto il fascismo. Io sono milanesissimo ma di padre irlandese. Mia mamma invece è trentina, di padre tedesco»; prima che scrittore era una creatura della notte, un animale da bar che viveva come antidoti alla paura: «La trasformano in malinconia, qualcosa di dolce. Sono chiese laiche o pagane, templi di incontri per sconfiggere il tempo», convinto con Ernest Hemingway che solo bevendo a un bancone si possano incontrare le storie, e con John Belushi, che poi bisogna anche cantarle – con la posa da Bongusto, la presenza da Buscaglione e le storie di Califano –, a ritmo di Cuba Libre. Anche se poi si fece cantare da Francesco Baccini. Una penna, una Montblanc, un bicchiere e un sigaro. Se ne va a 57 anni, dopo essere divenuto “quasi amico” col suo carcinoma. Ha il merito di aver rinnovato il racconto di Milano, di averle messo le calze a rete sbronzandola, la sua Milano da bere era alcolizzata, scorretta, estrema. Scriveva noir sostenendo di non appartenere al genere – «Io sono un genere» – e risolveva casi come quello della setta dei Bambini di Satana e del “mostro di Foligno” Luigi Chiatti, perché, a differenza dei giallisti di oggi, stava per strada, dagli anni 70 ai 90 i bar di Milano l’hanno amato moltissimo, come amarono Giancarlo Fusco. «I miei fogli sono pieni di macchie, d’inchiostro, perché scrivo a penna, ma anche di birra, di cenere di sigaro. Sono pagine vissute». Pinketts era un dispari, un irregolare, «Ho fatto il copy pubblicitario, l’istruttore di difesa personale, il maestro di kendo, il giornalista investigativo, il critico letterario, ho fatto la radio, l’intervistatore di vallette per Onda Tv che era un giornale sulle televisioni private dei primissimi anni Ottanta, ho fatto lo sceriffo di Cattolica. Sono stato nominato detective comunale da Gianfranco Micucci nel 1991. Ho fatto l’attore di fotoromanzi» , e poi aveva deciso di scrivere e di rappresentare se stesso, abusandone. Ma per lui come cantava Enzo Jannacci l’importante era esagerare. Aveva istinto e presenza, ma esagerò con il personaggio, divenendo un opinionista tivù – cosa che non gli piaceva, ma ci campava –: «Sono andato ospite al “Maurizio Costanzo Show” e ho fatto l’inviato per la trasmissione “Mistero”, dove la maggior parte delle storie raccontate erano puttanate, ma un due per cento davano i brividi. Ho partecipato perfino, grazie a Vittorio Sgarbi, a “La pupa e il secchione”». Avrebbe meritato più pagine e maggiore attenzione, era uno Scerbanenco che aveva fatto in tempo ad affacciarsi tra quelli che contano, ci lascia il suo alter ego Lazzaro Santandrea (in omaggio al più celebre zombie della storia, e che nel cognome santificava il nome dell’autore) con una vocazione morale per la giustizia, e una ventina di libri vari. «Non so sciare, non so giocare a tennis, nuoto così così, ma ho “il senso della frase”», quella che permette alla bugia d’essere vera e alla verità d’apparire come menzogna, con classe. Voleva essere un duro ma poi aveva il cuore tenero e la madre a casa ad aspettarlo. Si immaginava nei polizieschi ma apparteneva alla commedia. Amava i perdenti e le battaglie perse. Il vero paragone da fare è con Quentin Tarantino, prima di Tarantino – che Pinketts conobbe e ammirò – un pulp milanese con bar, camera da letto e cucina. Ma l’incontro importante, sempre in un bar, fu con Manuel Vázquez Montalbán: «Ci scambiammo i libri, grazie a lui ho pubblicato il mio primo romanzo con Feltrinelli». Ha shakerato il noir e rivoltato Milano, dandole dei nuovi cattivi e delle nuove paure. Amava il grottesco, e nonostante le esagerazioni è sempre stato credibile: dalle morti che raccontava ai giudizi che dava. Un vero, niente a che vedere con la plastica di adesso, anche se recitava a soggetto.
[uscito su IL MATTINO]