Dall’ozio d’un bar e l’azione di spiaggia, interlocutore di corpi mai divenuti “intronata routine” di quel “cantar leggero / l’amore sul serio”, come Panella scrive su musica di Battisti, Maurizio Zanfanti (63 anni), “Zanza”, patriarca dei Vitelloni, se ne va. Cadendo, come un pilota, in pista, nell’esercizio delle sue funzioni, anche se l’auto era ferma e non c’erano curve, ma cosce, le ultime, quelle dell’estremo desiderio, che era sempre il primo, ogni giorno diverso; e la velocità era la sua, quella di uno che ha corso generosamente su commissione, sperperandosi in nome del maschio latino, perdendosi ogni notte dietro alla geografia della femmina. Tedesche, danesi, svedesi, inglesi, Zanza ha unito l’Europa a Rimini, prima che questa divenisse struttura, imposizione, obbligo a Bruxelles. L’Europa del Zanza era diversa, lui, riusciva a farci stare dentro l’amore libero, il divertimento sfrenato, l’inganno: ma sempre nel post coito, e un briciolo di felicità tra una cabina e la battigia, tra un ombrellone e il cesso di una discoteca. Zanza è stato avanguardia, esempio, emblema, tanto da essere raccontato da “Bild” – grande giornale tedesco –, comparendo nelle case delle ragazze che aveva amato a Rimini nelle estati degli anni 70. Zanza, la sua biografia, dalla tana, il locale notturno “Blow Up”, il suo corpo palestrato, i suoi capelli biondi – vero compromesso storico ma della pettinatura – con la frangia davanti e lunghi dietro, le sue collane, che apparivano sotto le camicie aperte e sopra il petto villoso: erano emozione identitaria, un totem di mascolinità e abuso di questa, al punto di farsi icona, come e più del Tempio Malatestiano di Rimini. Iscritto di fatto alla gioventù vitellonesca – inchiodata da Ennio Flaiano e Federico Fellini – Zanza ha fatto in tempo anche ad essere tondelliano (re notturno, perso nelle utopie che le albe cancellano) e quindi a farsi ponte tra due modi di intendere Rimini, paesaggio straniato e straniante, assunto a metafora delle ossessioni sentimentali e sessuali (italiane e straniere) in un impasto di cuore e carne. Zanza riusciva ad essere Principe Azzurro, Tarzan e Buffalo Bill, con una elasticità che andrebbe brevettata e che ovviamente, con molte altre cose, gli italiani stanno perdendo. Apparteneva a una generazione che ha fatto del poco una possibilità, corpo-simpatia-audacia, il resto era spiaggia. Un cocktail gradevole e levigato dalle conquiste, fino a divenire riferimento topografico, e poi monumento. Perché a fare due conti, altro che premier e ministro, ad essere un Califano riminese senza nemmeno la rottura di dover cantare, si passa una bella vita, col mare d’inverno a fare compagnia ai tuoi racconti mentre apparecchi e conti le vittorie sui Faust che non saranno mai alla tua altezza, con una collezione di sorrisi mitteleuropei che la Bce non ha visto né vedrà. Le notti di Zanza, compresa l’ultima, fatale, che non avevano pareti “ma alberi / alberi infiniti”, e centinaia di angoli, e una fauna sottoposta a creatività e acrobazie, chiamata a mischiarsi e compiacersi, cedere e riprendersi, si sono ripiegate tutte su un sedile ribaltato, appese all’ultimo sforzo, al sudore caduto prima che arrivasse di nuovo l’inverno e il racconto. Zanza si è costruito il privilegio d’essere cercato, quando le donne non cercavano nessuno o quasi; di non essere ripetitivo né di perdersi nel quotidiano, no; tanto che persino ora che Rimini ha perso molto del suo splendore, lui continuava ad esercitare, con tanto di stimmate e fotografie, episodi e risate. Era un reduce, di una estate lunghissima che lo aveva scelto, nella sua eccentricità, con una dottrina da costruire, e un linguaggio improvvisato poi divenuto pure copione, tra cinema e romanzo, Zanza faceva ricerca, andando a caccia o venendo cacciato. Sì, perché è stato anche preda, vittima della sua carnalità potente. Un corpaccione steso notte e giorno, sole e luna, alla ricerca del godimento, in un intreccio di sguardi, parole e ammiccamenti. Ogni playboy è un compromesso, dove convergono sperimentazione, cazzeggio, impegno e talento. Zanza era anche lo spettro di un italiano che non c’è più, fortunato possessore di un sentimento visionario, splendido interprete di una audacia romagnola che va sparendo. Il fatto stesso che fosse vitellonesco – un film del 1953 – la dice lunga sul percorso, e anche sulla lontananza dall’oggi, dove si potevano dribblare le responsabilità, viverci, giocando a portare Peter Pan in camera da letto. Zanza, la leggerezza è già tutta nel soprannome che sarebbe piaciuto a Toti Scialoja, l’evasione, la futilità – l’unica vera ragione di vita possibile – sono nel suo svolazzo da una donna all’altra, senza per questo essere appagato, in una fame insaziabile di implicazione erotica, in una febbre incurabile, che l’ha portato a morire nel migliore dei modi. “Sono Don Giovanni / rivesto quello che vuoi / son l’attaccapanni / Poi penso che t’amo / no anzi che strazio ”, Pasquale Panella non poteva dirlo meglio, scrivendo “Don Giovanni” per Lucio Battisti, acchiappando il desiderio e la fuga: che poi è quello che Zanza ha interpretato, un fluire incessante, tra i corpi delle donne e il suo.
[uscito su IL MATTINO]