Leonardo Sciascia ha avuto un rapporto molto stretto col cinema: prima come fuga, poi come produttore di storie. Prima gli è servito per scappare dalla provincia, poi i suoi romanzi sono diventati film, quindi la fuga di altri. Si deve parlare di un rapporto filosofico, un intreccio che diventa metodo, non a caso fin dagli inizi con “Le parrocchie di Regalpetra” scrive a Vito Laterza che vorrebbe “girarlo” come un documentario. Non a caso, anni dopo, Italo Calvino parlerà del romanzo “Il giorno della civetta” – poi divenuto film con Damiano Damiani – di un racconto-documentario. Sciascia, come i veri scrittori è capace di declinare tutto – dal romanzo giallo, al saggio storico – secondo una disparità che lo porta naturalmente fuori dalla massa e dal tempo, in un oltre come il cinema, ma non quello banale degli scrittori di oggi, da consumo, no, Sciascia punta alla metafisica, all’estinzione della trama, al riassunto in una immagine. A un secolo dalla sua nascita suo nipote, il regista Fabrizio Catalano, racconta i film nati dalle parole del nonno e quelli che sono serviti per scrivere quelle parole, rispondendo alle domande di Vincenzo Aronica in “Sciascia e il cinema” (Rubbettino). Vengono fuori aneddoti, curiosità, scontri, scambi, lettere, insomma quel groviglio che c’è prima e dopo un film. Sciascia è figlio del muto e devoto al silenzio: adorava Louis Jouvet e amava il cinema d’immagine non quello parolaio, leggendolo si capisce che era legato all’essenzialità non ai tempi morti, alla precisione e alla geometria non alla dispersione, il resto sono titoli. Il libro si apre con una conversazione tra due registi che sono figli della lezione sciasciana: Roberto Andò e Giuseppe Tornatore, che tirano fuori l’incontro tra Sergio Leone e Leonardo Sciascia a Villa Igea per sceneggiare “C’era una volta in America” con il regista che pur avendo capito moltissimi uomini non riuscì a convincere lo scrittore, che si ritrasse, cercava un complice con un modo troppo sbrigativo per la suscettibilità sciasciana, e non se ne fece niente. Anche l’irruenza di Pasquale Squitieri pagò pegno all’ombra di Sciascia. Mentre sul set de “E la nave va” di Federico Fellini, lo scrittore si ritrova di fianco a Ingmar Bergman in una scena simile a quella raccontata da Jonathan Safran Foer che si immaginava compagno d’orinatoio di Steven Spielberg: una grande scena di cinema, con lo scrittore e il regista che non condividendo una lingua si ritrovano a spartirsi espressioni, come nel cinema muto. Una selva di scene stava dietro quell’incontro: tanto cinema visto, pensato, scritto e girato. Due mondi uniti dall’immagine, e dalla lotta contro la morte, con luci differenti, risposte lontane, e complessità di risposte. Sciascia era troppo pigro per mettersi dietro una macchina da presa come fece Pasolini, ed era anche molto aristocratico nel rapporto con i registi che lo “usarono” per farne cinema. Solo Francesco Rosi, che da “Il contesto” trasse “Cadaveri eccellenti”, trovò il giusto compromesso, anche perché il saggio da scrivere sarebbe quello di raccontare la storia d’Italia attraverso le loro opere, era naturale che si ritrovassero, tanto che è facile pensare a “Salvatore Giuliano” (film del 1962) come prequel de “Il giorno della civetta” (romanzo del 1961). Gli altri registi, a cominciare da Elio Petri – che ne girò due, come Emidio Greco, e diede inizio alla trasposizione dell’opera sciasciana dalle pagine alla pellicola e all’allontanamento riducendole a pretesto – non riuscirono a soddisfare appieno la fuga borgesiana di Sciascia, il suo rovesciamento illuministico del giallo, tanto da fargli alzare una guancia al massimo. Sotto quell’alzata caddero Damiani e pure Gianni Amelio. Bravi, ma pur mancanti della completezza – impossibile da restituire – sciasciana, che poi è anche quello che succede con le trasposizioni cinematografiche di Stephen King. Tutte queste sfumature vengono analizzate da Catalano che spiega, ricorda, mette insieme giudizi dello scrittore, raccontando anche i film meno conosciuti come “Un caso di coscienza” di Gianni Grimaldi, o “Una vita venduta” di Aldo Florio. Aspettando il libro che sembra un film, quello con tutti gli scatti fatti a Sciascia da Ferdinando Scianna, un film/libro che non esce per una paura “mediterranea” di disobbedire al ricordo, manomettendo l’immagine.
[uscito su IL MATTINO]