Il leader rende migliori gli altri

undici-virtu-leaderIl calcio ci rispecchia. Spogliatoio del Real Madrid, partita chiave di Champions, Ronaldo (il brasiliano) e Roberto Carlos palleggiano come da spot, tutti rapiti, poi passa Raúl e dice: «Per vincere, quella roba non serve a niente». Ma è quella roba lì che ci porta allo stadio. Jorge Valdano ha fatto un gran lavoro su di sé da calciatore, allenatore, dirigente, fino a scrittore. È incapace di produrre fiction ma capacissimo di leggere e riprodurre la realtà dei campi e degli uomini che giocavano e giocano su quei campi. Uno sguardo e una sintesi, impossibile da trovare in Italia, riversati in libro: “Le undici virtù del leader” (Isbn, pp. 157 euro 16, traduzione di Pierpaolo Marchetti) undici come il numero sulla sua maglia e i calciatori in campo, undici virtù che diventano manuale, un po’ Bushido un po’ diario del calcio attraversato. Ha la normalità di uno chef che apre il suo frigorifero e tira fuori il meglio, lo compone, e poi lo serve, e, il lettore, mangiando, si accorge che c’è ancora speranza. Valdano si è inventato una figura di laterale delle parole e dei concetti – più scrive più si accentra – li crossa in mezzo senza nemmeno preoccuparsi molto che ci siano attaccanti pronti a spingere il pallone in porta, crossa, a ripetizione. E non dimentica nessuno, anche dopo essere stato ai vertici del Real Madrid, continua a conservare una visione dal basso, parte dall’inizio, sarà per una inclinazione romantica (come spesso viene liquidato) in realtà è puro stile, non dimenticare da dove si è cominciato: «Neanche quando fui convocato per giocare il mio primo Mondiale mi sentii importante come allora, in quelle partitelle improvvisate». Ha tenerezza per i suoi maestri come Cesar Menotti: «uno che illumina la parte più nobile del gioco», lascia trasparire l’ammirazione per Bielsa «Quando l’ho conosciuto, ho pensato che fosse povero, e invece no, era umile», e per Guardiola «lo Steve Jobs del calcio», e c’è spazio per il suo essere testimone delle impressioni di Alfredo Di Stefano, che no, non giocava mai da solo: «Quando passavo dieci minuti senza toccare la palla guardavo la tribuna e mi chiedevo cosa stesse pensando di me tutta quella gente». Più che per le vittorie Valdano ha a cuore l’etica e l’estetica, più che per i risultati insegue la morale (Luis Molowny e Vicente del Bosque) e il suo eroe è Maickel Melamed. A cinquant’anni, continua a segnare gol che non ha mai segnato, parafrasando Soriano. È un poeta di campo, che non perde mai di vista la realtà del gol. Sócrates concreto, che capitalizza la sua esperienza, prova a difendere una certa idea di pallone, e si prende anche le colpe per «La mano de Dios», il contestato gol dell’Argentina contro l’Inghilterra nel 1986: «se non sono stato il primo, sicuramente sono stato il secondo ad abbracciare Maradona dopo il gol». Ci sono molte e molte storie che diverranno pure esempi uno può scegliere quale salvare: «Un giorno andammo a vedere la Nazionale tedesca, che era la nostra probabile avversaria, e i suoi giocatori ci parvero superuomini. Il calcio europeo ci intimidiva per la sua velocità e la sua forza fisica, e la Germania, con la sua sola presenza, confermava quella leggenda. Nessuno parlava, ci limitavamo ad ammirare quello spettacolo fisico con un certo complesso di inferiorità. Menotti invece rimase tranquillo, e se il leader è tranquillo… Improvvisamente, uno dei giocatori più coraggiosi, quello dall’aspetto più fragile e di origini più umili ruppe il silenzio per dire, sbuffando: «César, questi tedeschi sono fortissimi». «Forti? Quelli lì?» rispose Menotti con prontezza indimenticabile. «Non dire cretinate. Se prendiamo uno qualunque di questi biondoni e lo portiamo nel quartiere dove sei cresciuto tu, dopo tre giorni lo portano via in barella. Forte sei tu che sei sopravvissuto a tutta quella povertà e giochi a pallone dieci volte meglio di quei pezzi di legno». Ci sono i calciallenatori gentili come «Ricardo Giusti, mio compagno quando ho mosso i primi passi nel Newell’s Old Boys di Rosario e gli ultimi passi nella Nazionale argentina campione del mondo in Messico nel 1986, è per me un grande esempio.  Sempre interessato agli altri, sempre intento a costruire rapporti di solidarietà, sempre pronto a fare squadra. L’ultima volta che ci siamo visti, mi ha raccontato una cosa bellissima. Una volta a settimana torna al suo paese natale a giocare una partita con gli amici di sempre. Arriva quattro ore prima per tagliare l’erba del campo, pulire lo spogliatoio e lasciare tutto pronto per la grigliata che segue la partita. Vi ricordo che lui è stato campione del mondo e che nessuno tra i suoi amici è riuscito a diventare nemmeno un calciatore professionista». E come Frank Rijkaard: «allenatore rispettoso fino all’ingenuità dell’ambiente calcistico nel quale era cresciuto, educato fino al martirio con i giornalisti che l’hanno fatto soffrire parecchio, resistente fino all’eroismo quando si è trattato di difendere la dignità del proprio ruolo. Poche volte ho visto una persona che ha dato tanto e che, in cambio, ha ricevuto così poco. La sproporzione della ricompensa è legata al logorio causato dalla sconfitta finale del suo ciclo. Ma, secondo me, è stato proprio il crollo finale del suo progetto a ingigantirne la figura». O grandi ironizzatori come Ezequiel Castillo «valoroso centrocampista del Tenerife che ho allenato negli anni novanta, quando soffrì un lungo periodo di astinenza dal gol. Ezequiel sfruttò quel problema trasformandolo in un’opportunità commerciale. Un giorno arrivò nello spogliatoio con la soluzione: aveva deciso di realizzare un video che avrebbe intitolato I miei cento gol falliti. Da quel giorno ogni errore ebbe un senso perché arricchiva la sua idea: Altri due errori per il video; Quello di oggi è uno dei migliori che ho sbagliato; oppure, quando segnava un gol: Questo ritarda il progetto». c’è una ricerca del dettaglio, andando oltre vittoria e sconfitta Alfio Basile diceva «Quando vinciamo siamo tutti biondi con gli occhi azzurri; quando perdiamo tutti brutti e scemi». C’è il tentativo di spostare la visione campionocentrica verso altri calciatori che hanno avuto meno spazio, meno vittorie, ma non per questo non hanno contribuito a salvare quella idea di calcio che appare minoritaria e che forse lo è ma che poi rispunta e copre tutto. Ma è nell’attesa di questa rivelazione continua, e, pure, perduta, che si guardano le partite, perché come scrive Jacinto Benavente: «La cosa migliore del fare l’amore è quando saliamo le scale».

[uscito su IL MATTINO]

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6 thoughts on “Il leader rende migliori gli altri

  1. […] gordo Ronaldo e su  el niño Ronaldinho. Entrambi, però, mi hanno fatto ricordare un episodio che Jorge Valdano racconta sempre: protagonista il Mono Oberti, idolo del Newell’s, Valdano gli passa male la […]

  2. […] dal calcio, andando a pescare in Argentina con Cesar Luis Menotti e leggendo quello che gli diceva Jorge Valdano – presunto nemico del Real Madrid – per poi tornare, vincere e annoiarsi al Bayer Monaco in un […]

  3. […] parla spesso dell’importanza dello stile, ma come si […]

  4. […]  Rafa Marañón è quello che al suo esordio segnò due gol, per poi diventare architetto, e Jorge Valdano è il calciatore filosofo, capace di andare oltre Socrates, da lui ci aspettiamo il grande romanzo […]

  5. […] importante di Colombo, anzi, ed ha comunque il suo posto nella storia, solo che in questo periodo prevale l’ossessione della vittoria; in realtà gli uomini come Pinzón prima, e le squadre come il Napoli hanno fatto di più, hanno […]

  6. […] Marañón è quello che al suo esordio segnò due gol, per poi diventare architetto, e Jorge Valdano è il calciatore filosofo, capace di andare oltre Socrates, da lui ci aspettiamo il grande […]

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