Soriano: una specie di Balzac argentino

Diceva di essere nato con un gatto in attesa sulla porta, il padre che fumava in cortile, e Borges e Bioy Casares a pochi isolati da lui impegnati a creare storie allucinate di don Isidro Parodi. Era il suo modo di riassumente Mar del Plata nel ‘43. Poi aveva vissuto giocando a calcio, fumando, fuggendo e tirando pietre nelle finestre dei potenti, come un bambino, senza mai perdere il sorriso. Fece il giornalista, fu costretto all’esilio dal potere di Videla, scrisse libri che lessero tutti – dai ragazzini di Buenos Aires a Fidel Castro, Gabriel Garcia Marquez e Salman Rushdie passando per Maradona –, divenne famosissimo, e quando stava scrivendo un romanzo su Carlos Gardel, morì: era il 29 gennaio del ‘97. Abbiamo chiesto di ricordarlo a Mempo Giardinelli che fu tra i suoi migliori amici. È uno dei grandi scrittori della nazionale argentina, che come quella di calcio è piena di talenti. Ha fondato e diretto riviste, scritto un mucchio di libri, e tra i tanti ce n’è uno fondamentale sulla storia del paese che passa attraverso una famiglia: “Sant’Uffizio della memoria” (Elliot).

Che resta oggi di Osvaldo Soriano?

«Credo che Osvaldo continui a vivere nella memoria di migliaia di argentini che lo lessero con piacere, trepidazione e ammirazione. Poi, certo, le nuove generazioni lo conoscono di meno come riferimento letterario, ma conoscono di sicuro il suo memorabile racconto: “Il rigore più lungo del mondo”, che è un classico che viene letto a scuola e quindi da tutti i ragazzi».

Perché ebbe tanto successo negli anni 80-90?

«Perché era un grande scrittore, e interpretò come nessuno lo spirito della sua epoca. Era brillante e usò la sua ironia per leggere con acutezza la politica e fece divenire un culto la sua passione sportiva. Tutto questo lo trasformò in un autore molto popolare».

Come lo conobbe?

«Nel 1969 all’Editorial Abril (una casa editrice di fumetti e riviste, N.d.R.). Io arrivavo dal Chaco e lui da Tandil, e ci unimmo alla prima redazione di “Semana Gráfica”. Divenimmo molto amici e subito mi apparve come un fratello. Osvaldo aveva cinque anni più di me e a quell’età è una cosa che pesa molto. A legarci erano le stesse passioni: la letteratura, i gatti, il calcio e la politica. Quella amicizia era per sempre e ancora continua. Passavamo le notti a camminare per la Avenida Córdoba fino a raggiungere il quartiere Palermo, dove vivevamo. Ci fermavamo a bere gin in alcuni bar se faceva freddo, e in estate bevevamo l’acqua gasata che era un vizio di Osvaldo. A volte arrivavamo fino a Corrientes, che era una avenida luminosa e bella, e dividevamo un tavolo con altri scrittori come Carlos Llosa e Mauricio Borghi, un giovanissimo poeta che poi fu ucciso dalle squadre della “Tripla A” (l’alleanza anticomunista argentina N.d.R.)».

Poi entrambi foste costretti all’esilio.

«L’esilio è un atto traumatico, come ogni emigrazione, soprattutto se si deve a delle ragioni politiche, a persecuzioni e alla necessità di sopravvivere e rifarsi una vita in una geografia diversa. Noi due ci salutammo una cruda notte d’inverno del 1976, sapendo che l’esilio avrebbe cambiato le nostre vite. E così fu».

Se dovesse raccontare Soriano a un ragazzino che non lo conosce, che gli direbbe?

«Gli potrei assicurare che leggere ed essere amico di Osvaldo gli garantirebbe incanto, cervello e momenti di meraviglia. Gli racconterei l’ultima volta che lo vidi, un anno prima della sua morte. Fu nel Bar Suárez quando al governo c’era ancora il vergognoso Menem. E Osvaldo sfornava un racconto dietro l’altro, era come vedere una scintilla dietro l’altra, e già allora ero cosciente che lui era il più grande di tutti noi, lo scrittore più originale degli ultimi decenni e l’unico che avrebbe potuto essere una specie di Balzac argentino».

Lei ha fatto con Soriano l’esperienza dei giornali dove si imparava a vivere e che oggi sembrano creature morenti. Come stanno oggi i giornali argentini?

«Il giornalismo argentino, come sempre, è uno spazio di lotta ideologica tra la verità e la menzogna. Ma ora, nel 2017, la verità è marginale ed è anche abbastanza esausta, scoraggiata, mentre la menzogna regna in un impero retto da un governo di psicopatici in un sistema multi-mediatico, iperconcentrato e nutrito da bugie seriali».

Leggendo Soriano l’Argentina sembra una autostrada che non porta da nessuna parte, dove un mucchio di uomini vagano rincorrendo utopie. Oggi che paese c’è?

«Oggi tutto è peggiore. Il neoliberismo sta distruggendo nuovamente il mio paese, e io penso a quanto mi manca Soriano, per deliziarmi con gli articoli dell’indimenticabile Max Ferrarotti (era un personaggio inventato da Soriano, meticcio e scansafatiche, che prendeva in giro tutti, teneva anche una rubrica intermittente prima su “Satiricón” poi su “Mengano” infine su “Página 12”: “Llamada internacional” N.d.R.)».

Lei ha molto ironizzato sui difetti dell’Argentina, che sembra brava a produrre miti, invece Soriano sembrava cercare perdenti a partire da suo padre. Dove sta la verità?

«Ognuno la cerca come può e dove crede di poterla incontrare. Quello che avevamo in comune erano forti figure paterne, idealisti insoliti e romantici perdenti».

Il maggior difetto di Soriano? E il suo maggior pregio?

«Non smettere di fumare in tempo. Poi, le sue qualità passano dalla pagina alla realtà, dalla scrittura alla passione vitale».

Cosa le manca di più di Soriano?

«È come non aver più un fratello, con il quale non ti vedi tutti i giorni ma sai che è in giro e se lo chiami viene, e se ti chiama vai. Il suo regalo più grande è stata la saggezza, Osvaldo era anche un tipo saggio, che leggeva onestamente la realtà».

Quale è la pagina di Soriano che rilegge sempre?

«L’ho riletto tutto di recente, mi piacciono molto: “Mai più pene né oblio” e alcuni racconti. Però le due storie che amo sono: “Quartieri d’inverno” e “La resa del leone”, magistrali».

Se Soriano fosse un calciatore, chi sarebbe?

«Direi: Fabián Alberto Cubero, detto Poroto, il numero cinque del Vélez Sarsfield, da venti anni. Un calciatore passionale, inesauribile, e fedele alla sua maglia. E anche sposato con una delle donne più belle dell’Argentina».

E se fosse un compositore di tango?

«Virgilio e Homero Espósito, gli autori di “Naranjo en flor”».

Soriano fu uno scrittore felice?

«Per come intendeva il suo lavoro uno scrittore come lui o come posso intenderlo io: non si può mai essere felici. La felicità non è un destino o una categoria letteraria. Però sì, lui fu un uomo innamorato e a suo modo felice con Catherine e Manuel (moglie e figlio N.d.R.). Inoltre era un uomo molto allegro, con un enorme senso del divertimento, quasi infantile, e uno straordinario olfatto per l’ironia intelligente. Rimane uno scrittore imprescindibile».

[uscito su IL MATTINO]

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3 thoughts on “Soriano: una specie di Balzac argentino

  1. […] a 20 anni dalla morte di Osvaldo Soriano, lo scrittore argentino che ha cambiato il modo di raccontare il calcio, l’ha […]

  2. […] Osvaldo Soriano mi aspetta al ristorante “Strelka Bar” sulla Moscova. Calciatore, giornalista, scrittore argentino. Esordì con “Triste, solitario y final”. Dopo il golpe militare scelse l’esilio in Europa. In gioventù era stato il centravanti mancino  del Confluencia che stese un cane poliziotto con un tiro. Ogni palla che aveva o era gol o stendeva un cane. Lo raggiungo in leggero ritardo. […]

  3. […] quando si alza e chiede all’ammiraglio Lacoste dei desaparecidos, mosso da una frase di Osvaldo Soriano: «è sempre meglio sbagliarsi con le dittature, che avere ragione tacendo». È un libro pieno di […]

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