Archivi tag: John Cheever

Arpino: minoranza da lettere scontrose

L’Italia degli anni Sessanta del Novecento è, probabilmente, il momento più alto del secolo, per quanto ci riguarda,  almeno per immaginazione e produzione, per politica e dibattito, per cinema e scrittura, per possibilità e libertà, tanto che è irriproducibile. Ma quello che possiamo ancora recuperare e che ci arriva improvviso da diario di quel tempo, un reportage del contesto e delle figure che si muovevano all’interno, è una fotografia di quel decennio, fornita da uno scrittore di confine con tanto vento dentro le pagine. Giovanni Arpino, con le sue “Lettere scontrose” (minimum fax) una raccolta in volume della  rubrica che tenne per il settimanale “Tempo”. Continua a leggere

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Per chi si scrive

Secondo me Updike scrive per lo stesso tipo di pubblico per cui sosteneva di scrivere John Cheever: «uomini e donne adulti e intelligenti», dovunque possano trovarsi. Tutti gli scrittori che valgono qualcosa scrivono al loro meglio e nel modo più veritiero che possono e sperano in un pubblico di lettori il più vasto e sensibile possibile. Insomma, si scrive meglio che si può e si spera in buoni lettori. Ma secondo me, in un certo senso, si scrive anche per gli altri scrittori – gli scrittori morti le cui opere ammiriamo, ma anche gli scrittori viventi che ci piace leggere. Se a questi altri scrittori piace ciò che si scrive, c’è una buona possibilità che piaccia anche ad altri «uomini e donne adulti e intelligenti». Continua a leggere

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Il blues del Po

Il Po è un blues per uomini soli, orfani di un mondo scomparso. A cantare è la voce di un pazzo, che attraversa paesi e città irrompendo nel silenzio di sperduti borghi, tenendo compagnia, volando nei campi, riempiendo giorni e notti: fra il frinire delle cicale, gracidar di rane e sgasi di trattori che arrancano rivoltando zolle di terra dura. Il suo è un lamento penetrante, nenia, che ricorda errori fatti, donne perdute, pesce cercato invano. È la vita che passa e gira, si perde e ritorna, sinuosa e incurante, specchio, sputo, ladro, giudice, testimone, accusa. Processo a cielo aperto, udienza continua, spada, mattini di nebbia e infiniti pomeriggi di sole. Piano piano entri nel suo lamento e in quello della sua gente. Devi stargli intorno come un chierichetto col parroco, assecondarlo, capire il rito, avere fede, e poi se hai cuore e fiato di stargli anche dietro senza perderti: impari ad ascoltarlo, e ne rimani rapito. Unisce più di uno stato, si porta dietro il fascino di una religione, ma a capirlo sembrano rimasti in pochi. I suoi 650 chilometri di bellezza negli ultimi trenta anni sono diventati una ferita, e tutti quelli che si avvicinano domandano solo del suo stato di salute, incuranti di quello che ha generato, ignorando le storie, le esistenze che trascina, le emozioni e le attese che ancora fortemente suscita. Continua a leggere

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Il nuotatore

Si chiamava Albert e oltre a poter esibire delle discrete esplosioni linguistiche aveva dalla sua la difficile arte di saper rappresentare la realtà. Sì, era un attore, ma questo viene dopo, dopo lo sguardo di lei e tutto quello che viene chiamato: contesto. Alle donne che davvero gli piacevano, che insomma lo stupivano, diceva sempre la stessa frase: «il silenzio implica il desiderio». E quelle che capivano, finivano nel suo letto. Lui, solo a un paio aveva mostrato le medaglie vinte alle olimpiadi, e raccontato di come una piscina era differente da un continente all’altro, anche se sembrava un discorso surreale. Non lo era mai, quando a parlare era Albert, il nuotatore, e delle sue discrete esplosioni linguistiche ora sapete anche voi, e anche che hanno delle implicazioni geografiche/sportive. Ai giornalisti, invece, parlava dell’esportazione dell’uomo interiore quando si nuota. Di come la piscina sia mondo, molto più di un set. Anche se c’è chi le confonde o peggio chi non le distingue. Perché l’espressione “guardare dentro” non appartiene solo agli analisti e agli scrittori, o è un invito di un prete, ma molto di più, quando uno è immerso nella sua corsia d’acqua, nel suo pezzo di percorso, e deve fare in fretta come una donna timbrare un cartellino, solo che non le danno medaglie né copertine, se lo fa prima degli altri. È complicato mettere in comunicazione l’acqua con la routine, anche se potrebbe essere una pratica elementare della cultura umana. Perché la sostanza di cui tutte le cose sono composte, l’importanza per uomini e donne, che in buona parte lasciamo che confluisca nella parola Dio, potrebbe essere affrontata con meno superficialità. Il nuotatore lo faceva, per questo era un uomo completo. O almeno appariva così a chi aveva margini di dubbio sulla parola Dio. Continua a leggere

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